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Articoli e riflessioni
FREUD E LE EMOZIONI
IL LUTTO NEI BAMBINI: COME ACCOMPAGNARLI IN QUESTA ESPERIENZA
Una perdita è dolorosa per tutti, sia per i bambini che per gli adulti.
Quando avviene un lutto in famiglia, l’atteggiamento spontaneo e naturale che può avere il genitore verso il proprio bambino è quello di proteggerlo dal dolore della perdita.
La perdita è però purtroppo avvenuta e l’unica cosa che possono fare una mamma o un papà è accompagnare il bambino nel processo di elaborazione del dolore associato alla perdita stessa.
E questo è un passaggio fondamentale che e’ importante fare e non rimandare o delegare.
Il vissuto del lutto cambia in base all’età dei bambini.
Fino ai 5 anni circa, un bambino non è ancora in grado di differenziare appieno tra una perdita temporanea e definitiva, ovvero può essere presente la fantasia di poter rivedere la persona o il proprio animaletto, che loro tornino.
Più tardi, dopo i 7 anni circa, è invece in grado di comprendere il concetto di irreversibilita’ del lutto, ovvero il fatto che se vi è la perdita di una persona o di un animale, questi non li si vedranno più.
Proprio perché la concezione del lutto non è così chiara, è importante che un genitore trovi il coraggio e la forza di parlare al proprio bambino della morte: che cos’è, perché avviene, come si fa ad affrontarla, quali emozioni provoca e così via.
Spesso si ha il timore di affrontare questi argomenti coi propri piccoli, perché si avverte il bisogno di proteggerli da un tema di grossa entità e dalla forte intensità emotiva.
In realtà, un bambino ha bisogno di capire e la chiarezza, fornita da un genitore, è importante perché dà la sensazione del controllo e della conoscenza.
Tutti, a qualsiasi età, ci sentiamo più sicuri di fronte ad una cosa conosciuta, che ci permette quindi il controllo delle emozioni.
Un genitore può fare degli esempi, partendo da situazioni accadute davvero, magari più lontane affettivamente al bambino per attenuarne l’emotivita’ e dare più spazio al pensiero, ad esempio può essere un vicino, un animale, l’esperienza di qualcun’altro.
Di fronte ad un lutto, un bambino può sentirsi arrabbiato, perché lasciato dalla persona o dall’animale a cui si voleva bene, può sentirsi profondamente solo e triste, può sentirsi in colpa e responsabile della morte, può avere il timore che possa accadere ad altre persone vicine, potrà desiderare di raggiungere la persona persa, potrà regredire a livello del comportamento o manifestare malesseri fisici o tante altre reazioni ancora.
In ogni caso, è fondamentale lasciare lo spazio per elaborare tutto questo turbinio emotivo: lasciare lo spazio per piangere la persona, ricordarla, per sfogare la rabbia, per capire.
Cosa può aiutare in questi casi?
Oltre al tempo, che permette la naturale elaborazione del lutto, può essere importante salutare la persona o animale persi.
Ciò può essere fatto attraverso dei riti di saluti personali o seguendo il classico rito del funerale.
È di aiuto al bambino, prepararlo al climo emotivo che incontrerà in entrambe le situazioni : il rito di saluto è un momento in cui si concede alla persona amata di andare via, la si saluta e ci si distacca ulteriormente e ciò può alimentare ulteriori emozioni.
Un bambino preparato in questo avrà la percezione di un maggior controllo e si sentirà più sicuro.
BULLISMO: COME FARE PER RINFORZARE LE VITTIME.
” Tirati giù le mutande altrimenti non sono più tua amica!”
“Se non fai quello che ti dico ti picchio”
“Tu non puoi giocare con noi perché sei ciccione”
Questi, e tanti altri ancora, sono esempi di frasi che rappresentano il bullismo tra pari.
Una mamma, tempo fa, mi chiese: “come si insegna ai bambini ll rispetto per gli altri? Come fa un bambino da solo ad avere le competenze per scegliere la cosa giusta da fare in assenza dei genitori? Cosa si può dire ai bambini per rinforzarli?”.
Questo è un tema difficile che preoccupa da sempre i genitori, ancor di più nell’era moderna in cui, oltre agli atti di bullismo, è presente anche il cyberbullismo, ovvero il bullismo in Internet.
Il rispetto per gli altri non lo si insegna, ma lo si apprende nel corso del tempo attraverso l’imitazione dell’altro, in primis dell’adulto accudente.
Se i bambini, fin dalla nascita, ricevono un’educazione basata sul rispetto e sull’amore, allora saranno degli adulti in grado di essere loro stessi rispettosi e rispettati.
Ciò può sembrare una banalità, ma forse vale la pena di riflettere sul significato del “rispetto”.
Se un adulto prende in giro, magari scherzando (“ma dai, smettila, stavo scherzando quando ti ho detto che non capisci nulla!”), e non si accorge della ferita emotiva che infligge al proprio bambino, allora non vi è rispetto.
Se un adulto, con l’intento di stimolare, di far puntare in alto, di promuovere ed incitare utilizza nomignoli divertenti (“muoviti, corri, mozzarella!!!”), allora non vi è rispetto.
Se un adulto utilizza lo schiaffo, come metodo educativo, allora di nuovo non vi è rispetto.
Come cresce un bambino in questo contesto?! Non sarà un bambino forte, sicuro di sé ma, al contrario, la sua autostima sarà danneggiata, sentirà di valere poco o di non valere affatto, tanto da meritarsi i diversi trattamenti e sarà più facilmente oggetto di bullismo da parte dell’altro, poiché incapace di difendersi, poiché è minata la fiducia di sé.
D’altra parte, questo stesso bambino più grandicello, potrà agire a suo modo le violenze subite, poiché avrà appreso come stile relazionale tipico quello non rispettoso o violento.
Ecco cosa c’è alla base di questo fenomeno. Tutto parte da qui.
I bambini vanno quindi rafforzati nella propria autostima.
Questo può essere fatto quotidianamente, attraverso dei complimenti, l ‘attenzione al bambino e ai suoi bisogni, la dedizione a lui e alla sua crescita emotiva.
Si vive in un’epoca in cui manca il tempo di fare tutto: ma non è la quantità del tempo che ci dedica ad un bambino che fa la differenza, quanto piuttosto la qualità, ovvero nei piccoli gesti quotidiani, nei momenti condivisi anche brevi, è lì che, se è presente un reale ascolto del bambino, gli si trasmette il valore che ha e lo si farà sentire rinforzato nell’anima.
Detto questo, un bambino anche da solo, in assenza del genitore che lo protegge, può mettere in atto delle competenze che lo proteggono qualora dovesse vivere una situazione di bullismo.
Se sente di valere, prima di tutto, non lascerà che l’altro lo maltratti. Questo, a qualsiasi età.
In secondo luogo, la cosa giusta da fare é prestare attenzione a come l’altro mi fa sentire: uno stesso modo di dire o agire può ferire un bambino e può lasciare indifferente l’altro. Nel primo caso, bisogna insegnare ai bambini ad ascoltare le proprie emozioni e reagire di conseguenza.
Se un bambino è sufficientemente forte e sicuro di sé, metterà a tacere il bullo di turno che non lo rispetta.
Se un bambino si sente più fragile ed indifeso, allora dovrà trovare il coraggio di parlarne con qualcuno e di chiedere aiuto subito.
Spesso questa è l’unica strada da percorrere, anche per quei bambini forti.
Il chiedere aiuto puo’ sembrare una strategia di poca importanza ma, in realta’, ne ha moltissima e non è una cosa cosi’ scontata.
Bisogna insegnare ai bambini a chiedere aiuto, perché spesso non riescono, non sono in grado, hanno vergogna, hanno paura di farlo perché temono di non essere ascoltati o creduti. Percui, diventa una competenza da allenare, per proteggersi in queste situazioni così difficili!
PERCHE’ SONO COSI’ DISTRATTO?
…”dimentico sempre il nome di una persona quando si presenta, ricordo spesso a me stesso quello che devo fare in giornata , a volte sono così distratto che sbaglio la strada che dovrei percorrere”…
La memoria è un processo cognitivo strutturato e complesso. L’incapacità di ricordare può essere indicativa di una mente disordinata o piena di pensieri e ansie.
A volte capita che la distrazione crei una reazione a catena, per cui se ci si crede distratti allora si è distratti davvero e le cose non si ricordano, come in una profezia che si autoavvera.
Pertanto, il suggerimento che la vostra mente vi fa, legato alla convinzione di non riuscire a ricordare, diventa una convinzione onnipotente che induce le vostre aspettative a diventare realtà.
La conseguenza: non si ricorda davvero!
Se, oltre ai pensieri, ci sono di mezzo le ansie, le cose si complicano. La mente funziona meglio quando lo stato emotivo di una persona è sereno e tranquillo.
Se ci sono in gioco emozioni forti, come ad esempio l’ansia o qualsiasi altro vissuto ingombrante, meglio fermarsi nelle proprie attività di pensiero e cognitive, per lasciare che l’intensità dell’emozione si abbassi.
Penso ai bambini o ai ragazzi in ansia di fronte ad un compito o un’interrogazione, che di certo sbagliano o non riescono ad affrontare se prevale una componente emotiva invalidante.
Allora, come fare?
Ogni persona, bambino o adulto che sia, vive pensieri ed emozioni a modo suo, per cui non esiste una regola o una soluzione magica valida per tutti.
In generale, si può riflettere sulle proprie capacità cognitive di memoria per capire come raggirare anche i pensieri che alimentano il non-ricordo: “…se so già che dimenticherò, allora faccio un promemoria, un appunto, chiedo a qualcuno di ricordare al posto mio…”.
In secondo luogo, parlare della propria ansia o delle emozioni che fanno sentire bloccati nella memoria, poiché parlare è comprendere, capire, realizzare come gestire gli tsunami emotivi: “…forse mi sale l’ansia per l’interrogazione perché i compagni mi guardano, allora dimentico tutto… Forse può aiutarmi capire che non faccio una brutta figura anche se sbaglio, che i miei amici credono in me anche se mi va male… E forse, di questo, devo proprio parlarne con loro, giusto per averne una conferma che mi aiuta….”.
LE FRAGILITA’ DEGLI ADOLESCENTI: QUALI I RISCHI E COME AIUTARLI.
SI SENTONO QUASI TUTTI I GIORNI NOTIZIE DI VIOLENZE SUI BAMBINI CHE FANNO STARE MALE TUTTI, DANNO UN NODO ALLO STOMACO, SPAVENTANO E RENDONO MOLTO TRISTI.
A VOLTE E’ DIFFICILE POTER PARLARE DI QUESTE ESPERIENZE PROPRIO PER QUESTI MOTIVI, PERCHE E’ DOLOROSO, ALTRE VOLTE PERCHE’ SI PREFERISCE NASCONDERE E NON DIRE NULLA, COME PER VOLERNE PRENDERE LE DISTANZE.
MA ATTENZIONE, PERCHE’ E’ PROPRIO IL TENER SEGRETO, IL NON DIRE NULLA, CHE ALIMENTA LE VIOLENZE STESSE E NON AIUTA CHI SI TROVA A SUBIRLE.
VI RACCONTO UN’ESPERIENZA VERA, I CUI DATI SONO STATI OVVIAMENTE MODIFICATI.
Gretel è una ragazzina di 12 anni. Si veste sempre in modo molto appariscente, a volte indossa un abbigliamento ai limiti della seduttività, accompagnato da un trucco evidente, che lascia intendere un forte desiderio e bisogno di essere vista.
Dopo una lunga conoscenza, che le ha permesso di sentire di potersi fidare, dice di aver conosciuto un ragazzo, di circa 22 anni, presentatole dagli amici della sua compagnia e di sentire di essersi innamorata di lui. Lo racconta in un modo che mi fa sentire quanto sia confusa rispetto alle sue emozioni e ai suoi vissuti. Sembra mostrare un forte entusiasmo ma, nello stesso tempo, “la paura e la colpa di aver fatto una cosa sbagliata”, così dice lei.
Dice che questo ragazzo le dice delle frasi e delle parole che la fanno sentire importante, diversa dalle altre ragazze, che vale qualche cosa, che è la ragazza più bella che lui abbia mai visto, così che lei crede che per lui vale tantissimo. Passano ore e serate interminabili a scriversi via chat parole affettuose e questo dura da circa 2 mesi. Gretel dice di stare veramente bene quando lo sente, non vede l’ora dei momenti vuoti, dove non deve studiare o fare nuoto, per chiacchierare con lui on-line e spesso rinuncia a trascorrere dei momenti con le migliori amiche perché deve chattare con lui.
Faticano a vedersi a causa della distanza, per cui Gretel si trova di fronte alla scelta di stare con gli amici o di fronte ad un pc. Spesso sceglie quest’ultima alternativa e sembra che, a causa di ciò, i rapporti tra lei e gli amici stiano svanendo, ma nessuno le dice nulla: le amiche non dicono nulla, poiché la capiscono e comprendono che un “fidanzato” può occupare tutto quel tempo; il gruppo di amici non dice nulla e quasi non sembra rendersi conto delle assenze dell’amica, assenze fisiche nei momenti in cui è’ a casa al pc, ma anche psichiche nei momenti in cui, fuori in paese con il gruppo, è assorta nella chat dell’Iphon; a scuola, nonostante vi sia un evidente calo nel rendimento scolastico, sembra esserci la paura di dire e di scatenare conflitti; a casa non dicono nulla poiché “è l’adolescenza”, dice Gretel riferendosi alle parole per caso sentite dalla mamma e poi perché “con il papà non posso parlare, mi sgriderebbe, non capirebbe e darebbe la colpa a me in ogni caso…sai, non gli piace come mi vesto!”, aggiunge la ragazzina.
Forse è scontato dire che Gretel ha un forte bisogno di essere vista. E lo manifesta nel modo più semplice, trasformando il suo corpo in un oggetto costruito, finto ed artificiale, che dentro sembra non avere un’anima, un’identità. Sappiamo che nel periodo dell’adolescenza e pre-adolescenza il bisogno principale, o compito evolutivo, è quello di iniziare a costruire la propria identità, attraverso un lungo cammino fatto da molti ostacoli, da salite e da discese, da momenti di regressione dove ci si sente ancora bambini, a momenti dove ci si crede grandi e responsabili e si pensa di non aver bisogno di aiuto.
Proviamo ad immaginare una ragazzina pre-adolescente che si sente qualcuno, si sente importante, solo se c’è qualcun altro, al di là di uno schermo, che glielo ricorda. Immaginiamo questa ragazzina che si sente unica e speciale solo perché ha le attenzioni di un ragazzo più grande che le fa sentire che la desidera. Immaginiamo Gretel che per sentire di esistere, di esserci, pensa di dover addobbare il suo corpo come un albero di Natale….tutti ricordano il Natale ….ma dov’è la sua autostima?! Come sta costruendo quella grande torre, che la sosterrà per tutta la vita, chiamata identità?! Sta mettendo mattone su mattone senza avere le fondamenta, costruendo una torre fragile, sensibile e, la cosa più grave, da sola!
La ragazza prosegue il suo racconto dicendomi che non si sente sicura. Perché questo ragazzo le piace molto, ma è grande e sta iniziando a proporle di vedersi ed uscire “dalle sue parti”, così dice lei. Ovvio che ciò che prova è una grande confusione emotiva e psichica: c’è il desiderio e l’adrenalina anche solo al pensare di provare ad uscire con questo ragazzo, alimentati dalla fantasia che per lui è unica e speciale e che stare con lui la farà sentire certamente così bene; ma, dall’altra parte, Gretel dice “non sono tanto sicura, se mi chiede delle cose?”, trasmettendomi tutta la paura , l’insicurezza, e la trasparenza di quei vissuti emotivi che funzionano e che le stanno dicendo “c’è qualcosa che senti che non va, fermati un attimo”.
Passa del tempo e un giorno Gretel è irrequieta, distratta, assente col pensiero. Mi cerca perché ha bisogno di parlarmi e lo dice con le lacrime agli occhi, cercando di nasconderle, forse per l’imbarazzo. Mi dice che il famoso ragazzo l’ha invitata ad un incontro, soli loro due. Dice che lei “non è riuscita a dire di no, che da una parte non vedeva l’ora di vederlo, di provare dal vivo tutte le emozioni che le ha sempre fatto magicamente provare in un mondo parallelo”, ma dall’altra sentiva qualcosa, che ha chiamato “agitazione, tremori alle gambe, un nodo allo stomaco” ma che, in un primo momento ha trascurato. Va all’appuntamento. Racconta di essere andata a mangiare un gelato e che poi hanno preso qualcosa da bere. Dice che lui era dolcissimo, le ha anche tenuto la mano. Dice che hanno fatto una passeggiata, raggiungendo poi la macchina, dove lui le ha proposto di salire e di accompagnarla a casa. Lei sale, dice che è stato veramente gentile. Vicino a casa, le propone l’alternativa: fermarsi un attimo nel parcheggio, un po’ coperto. Gretel dice di iniziare qui a sentire qualcosa che non andava bene, come una “vocina”, dice lei, che mi diceva di non accettare. Accetta la proposta. In macchina, da soli, lui si avvicina a lei e comincia a farle delle carezze. Gretel dice di avvertire i tremori, così chiamati da lei. Accoglie le carezze. Il ragazzo prosegue e la bacia. Lei accoglie il bacio, anche se non voleva, afferma. Poi lui inizia ad approcciarsi a lei in modo differente e seduttivo, che lei descrive come “non mi ascoltava neanche, mi allontanavo e lui si avvicina di più, insistendo”, facendo intendere la più completa mancanza di rispetto, ed è qui che ha pronunciato le parole “no, non voglio”, facendosi poi accompagnare realmente a casa.
Dice che si sente cattiva e quando le chiedo il perché, dice che “lui è stato così gentile e carino con lei e che lei non gli ha dato niente in cambio, che si è comportata da maleducata”. Sembra portare un senso di colpa, ma che non le appartiene, alimentato anche dalla fantasia di aver sedotto il ragazzo con il suo atteggiamento e modo di apparire provocanti. Non si parla di colpe, la responsabilità avrebbe dovuto essere del ragazzo, maggiorenne e giovane adulto, che non ha saputo rispettarla nelle sue emozioni, ma è stato molto difficile cercare di aiutarla a disinvestire se stessa dalla colpa legata al pensare di aver provocato il ragazzo con il suo modo di vestire o di porsi. C’è poi un papà che le dice proprio così, con il quale non si sente libera di parlare.
SPESSO GLI ADOLESCENTI SI SENTONO E SONO SOLI, CON LE LORO PAURE, INSICUREZZE, DUBBI. NON SANNO SCEGLIERE, HANNO BISOGNO DI UNA GUIDA CHE LI SUPPORTI MA CHE, A VOLTE, NON TROVANO. NEI SOCIAL NETWORK E’ FACILE INTESSERE RELAZIONI, TROVARE QUALCUNO CON CUI PARLARE E SFOGARSI. ALTRETTANTO FACILE E’ CADERE NELLE TRAPPOLE COME E’ SUCCESSO A GRETEL.
QUINDI, E’ FONDAMENTALE CREARE CON GLI ADOLESCENTI UNO SPAZIO DI ASCOLTO, DOVE NON SI SENTANO GIUDICATI, ACCUSATI, MA DOVE POSSANO INVECE SENTIRE DI POTERSI FIDARE, DI POTER TROVARE UN ADULTO CHE SAPPIA ASCOLTARE EMPATICAMENTE E SOSTENERE EMOTIVAMENTE. I MINORI VITTIME DI VIOLENZE HANNO BISOGNO DI ESSERE ACCOMPAGNATI AD USCIRE DAL SILENZIO, DAL TABU’, CHE SI CREA INTORNO ALLA VIOLENZA STESSA.
I NUOVI PAPA’
Secondo Margaret Mahler, psicoanalista, i bambini piccoli, nei primissimi mesi di vita, affrontano una fase detta ‘simbiotica’ durante la quale credono di essere un tutt’uno con il corpo della madre e dipendendo totalmente da essa.
Questo rapporto assolutamente funzionale al corretto sviluppo fisico e psicologico del bambino va oltre alla semplice funzione di assolvere alle necessità biologiche legate alla sopravvivenza: ciò di cui il bambino ha più bisogno per un corretto sviluppo psicologico è il soddisfacimento ‘fisico’ del bisogno di affetto, tenerezza, amore ottenuto attraverso il contatto e l’interazione con la madre.
La mamma è indiscutibilmente la “fonte” del sostentamento fisico e psicologico del bambino e nessuna scienza potrà mai spiegare la magica empatia che lega una madre al suo piccolo.
In questo rapporto simbiotico tra madre e figlio, che ruolo ha il padre? Sapete che già dalla terza settimana di vita i bambini hanno reazioni diverse a seconda che si trovino in presenza della madre o del padre?
Questo avviene perché entrambi i genitori si relazionano al bambino in modo diverso: la madre per curare e calmare, il padre per giocare e stimolare; alla madre spetta, attraverso la soddisfazione del bisogno di nutrizione, trasmettere il messaggio dell’essere amati, di essere appunto “nutriti di amore”, di essere desiderati, voluti, accettati per quello che si è; ma è la presenza del padre a dare l’imprinting ai futuri rapporti sociali del bambino con il resto del mondo.
Sul rapporto col padre si basa buona parte dell’autostima che il bambino avrà verso se stesso.
Questa funzione si amplifica se si parla di bambine. Infatti, il padre è il primo uomo con cui una bambina interagisce, e sarà proprio questa figura ad influenzare i rapporti futuri con qualsiasi altra figura maschile con cui si relazionerà.
Nella storia dell’umanità, la cura della prole è sempre stata compito delle donne, mentre l’uomo era considerato fondamentale per il sostentamento economico della famiglia. Ora, sembra che un lento ma costante mutamento all’interno dei costumi sociali abbia risvegliato nel maschio un insospettabile istinto paterno latente.
Ricerche attuali confermano come la maggior parte dei papà di oggi si occupano del loro bambino, facendogli il bagnetto, portandolo a letto la sera e accudendolo come di solito fa una mamma.
È scientificamente provato: l’uomo contemporaneo, dopo secoli di esclusione dall’educazione e crescita della prole, è giunto alla consapevolezza che partecipare attivamente alla crescita e all’educazione dei propri figli non rappresenta solo un bene per il bambino ma soprattutto si rivela fonte di soddisfazioni per il padre stesso.
Non pensate che ciò possa avere un affetto benefico anche all’interno della relazione della coppia mamma-papà?
Io credo che, se i compiti ‘famigliari’ vengono divisi equamente, vi sia anche una maggiore serenità all’interno della famiglia stessa.
E questi nuovi padri, possono essere intesi come figure sostitutive della mamma?
Io credo sia importante non confondere i ruoli!
Non bisogna dimenticare che il padre è simbolicamente la figura che funge da guida, è il tutore delle norme, delle regole sociali da rispettare, dei diritti e dei doveri, è il responsabile del necessario distacco tra il bambino e la madre, fondamentale affinché il bambino possa fare il suo ingresso nel mondo esterno. E rinunciare allo storico ruolo autoritario della figura paterna non vuol dire perdere la componente di autorevolezza che aiuta il bambino a crescere emotivamente equipaggiato per affrontare con sicurezza e serenità il mondo esterno.
Io credo che il suo ruolo vada letto come “completamento” della madre.
Un padre a 360 gradi, ovvero padre, marito e uomo, che ha un suo ruolo ben definito accanto alla madre, con la quale crea un rapporto di cooperazione volto a coprire i ruoli di ognuno secondo la propria sfera d’azione all’interno di un unico contesto quale è la famiglia, rendendosi l’uno insostituibile all’altro.
E cosa succede allora quando un papà è “assente”?
Possiamo già affermare che esiste una differenza significativa tra i figli maschi e femmine rispetto alla ripercussione emotiva dell’assenza del padre.
I ragazzi sono generalmente colpiti più duramente.
Tendono generalmente ad avere difficoltà a concentrarsi a scuola, disturbi con deficit di attenzione e iperattività e disagi a livello della condotta, mancando l’assetto autorevole del papà.
La mancanza del padre aumenta significativamente la probabilità che un ragazzo agisca la rabbia ed è molto comune per le madri avere difficoltà a gestire in particolare i ragazzi adolescenti senza padre.
Le ripercussioni più gravi si hanno anche a livello dell’ identità maschile: mancando un riferimento adulto maschile, spesso la costruzione dell’identità, che è già di per sè un processo complicato, risulta altrettanto difficile e spesso il risultato è una confusione identitaria.
In aggiunta, si crea un fortissimo legame con la figura materna che, a volte, può diventare quasi fusionale: il padre ha proprio il compito di inserirsi in questo legame e facilitare il passaggio da una relazione a due a una relazione a tre e, se manca, ciò risulta difficile.
Fra le ragazze, gli effetti dell’assenza del padre sono spesso traslati nel tempo durante la pubertà.
Agiscono spesso in quel periodo un comportamento sessuale esageratamente seduttivo e promiscuo e le difficoltà nel formare rapporti sani e durevoli con gli uomini sono molto comuni, proprio perchè è mancato, o è stato scarso, il primo modello di relazione con un maschio, cioè con il padre.
Sono certo riflessioni generiche e non è detto che per forza debba andare così.
Altrettanto certa è l’importanza della figura paterna per i bambini e il poter coltivare con loro questa relazione!
IL PERIODO DI CRISI A SCUOLA: PERCHE’ SI MANIFESTA E COME GESTIRLA
A volte i bambini si trovano ad affrontare delle sfide sul piano affettivo e relazionale, che mettono a dura prova il loro equilibrio emotivo.
Sto pensando ai diversi passaggi di vita che, se da una parte si presentano al bambino come un grande ostacolo, dall’altra rappresentano una grossa occasione di crescita.
L’inserimento alla scuola dell’infanzia o alla scuola primaria ne sono due esempi.
La “crisi” coinvolge non solo il bambino, ma anche le figure di accudimento intorno a lui.
Ed ecco che allora succede che i bambini iniziano a manifestare il loro disagio, attraverso il pianto, il rifiuto di andare a scuola, le lamentele sul piano fisico a volte usate come ottimo motivo per stare a casa, il croggiolarsi in un atteggiamento cupo e triste o, viceversa, l’espasperare comportamenti nervosi, agitati.
D’altra parte, a volte succede che il dispiacere contagi anche i genitori, i quali raccontano di un vissuto di tristezza e malinconia nel vedere il loro cucciolo andare a scuola, realizzando consapevolmente il suo percorso di crescita.
Ma cosa succede a livello più inconsapevole? E perché si attiva tutto questo?
Nel bambino e nei genitori sembra attivarsi l’ansia del sentirsi separati, come se questo distacco, creato dall’inserimento a scuola, fosse vissuto come un grosso vuoto tra loro.
E se la famosa “crisi” inizialmente rappresenta anche un modo sano per elaborare e digerire il distacco, se perdura nel tempo e non viene superata può rappresentare lo svilupparsi di un disagio.
Ma che cos’è l’ansia da separazione?
John Bowlby, nel 1951, individua un periodo particolarmente critico per il bambino in caso di privazione materna, ovvero tra i 6 mesi e i 3/4 anni, dove la reazione al distacco si manifesta con una fase di protesta, poi di disperazione e infine di distacco. Nel’ 59, Bowlby chiama questa risposta “angoscia di separazione” che, come dicevo, può essere funzionale per l’adattamento se di lieve intensità e durata; viceversa, può rappresentare un disagio se intensa e persistente.
In questo caso, in occasione delle separazioni in generale, come ad esempio quella rappresentata dall’inizio della scuola, il bambino manifesterà la sua sofferenza, come prima descritto.
Come si può evitare di cadere in questa seconda alternativa?
Nei primi anni di vita, le cure e l’amore genitoriale forniscono al bambino la “base sicura” che permette lo svilupparsi di un “attaccamento sicuro” tra di loro. Questa sicurezza emotiva, che passa dalla figura di accudimento primario al bambino, fa sì che lui possa più facilmente stare da solo con se stesso ed esplorare con più serenità l’ambiente circostante.
Ecco perché nelle scuole vediamo bambini che più facilmente tollerano il distacco dai genitori, mentre altri che fanno maggiormente fatica.
Ed ecco perché è fondamentale che i genitori riescano a trasmettere questa sicurezza emotiva nei primi anni, attraverso una presenza calda, attenta, rassicurante e che risponda ai bisogni del bambino in modo esaustivo.
La relazione primaria col genitore fa da specchio a tutte le altre e allora, se il bambino cresce con uno stile di attaccamento sicuro riuscirà più facilmente anche a far entrare altre relazioni nel suo mondo affettivo. Penso a quei bambini che facilmente riescono a passare dalla mamma, come base sicura, alla maestra e trovare qui, in questa figura, il sostegno emotivo necessario per affrontare la crescita sia sul piano relazione che didattico.
E come si fa con le eventuali ansie della mamma e del papà?
Vale lo stesso discorso. Se i genitori hanno potuto sperimentare un legame sicuro con le loro figure di accudimento allora il distacco dai propri figli avvera’ più facilmente.
Se invece risentono della capacità di separarsi dalle loro figure di accudimento, questo puo’ complicare il distacco che dovranno prima o poi operare con i propri figli.
Penso che, nel caso in cui questo passaggio sia davvero tanto complicato, sia utile una terza figura che aiuti nel districare questo nodo legato al timore dei distacchi.