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BAMBINI AL POSTO DEI GENITORI E VICEVERSA: QUALI CONSEGUENZE.

Laura è una bambina di 5 anni, va alla scuola materna, gioca con i suoi amichetti, si diverte. È socievole, simpatica, leader nel gruppo. Con le maestre della scuola fa un po’ fatica a rispettare le regole e lo stesso atteggiamento è fortemente presente con la sua mamma e il suo papà.
Laura li sgrida, alza la voce con loro, decide, se non comanda, sulle diverse cose quotidiane.
I genitori si adeguano a tutto ciò che lei dice, per cui decide lei quando alzarsi dal letto, cosa mangiare, che indumenti indossare, quanta tv guardare, cosa guardare, quanto giocare, cosa e come dire le cose agli altri, insomma, decide tutto lei.
Immaginate quanto possa essere difficile per una mamma ed un papà “domare” tutti questi comportamenti per farsi ascoltare e rispettare.
I bambini hanno spesso a che fare con l’onnipotenza. Ad esempio, intorno ai 2 anni hanno bisogno di sfidare l’adulto, opporsi a tutto ciò che esso dice, per sentirsi diversi, separati e quindi una piccola personcina in crescita. Questo avviene quando i bambini iniziano a dire di no per tutto, avete in mente? È un passaggio di crescita tipico di questo periodo, che permette loro di separarsi psichicamente dalla figura di accudimento primaria, restando comunque in rapporto con essa. In questo periodo, è fondamentale che i genitori restino fermi sulle loro posizioni.
Per la piccola Laura, questa fase ha preso una piega diversa.
Per prima cosa, non c’erano una mamma ed un papà fermi sulle loro idee e sui loro pensieri. Forse per il timore di dire troppi “no” e quindi di sentirsi separati e lontani affettivamente dalla loro bambina, e anche perché questi genitori conservavano dentro di loro un piccolo nucleo di un “Sé” ancora piccolo e ancora molto legato ai rispettivi genitori. Detto in parole più semplici, si sentivano ancora piccoli.
In secondo luogo, questo “via libero” ha consentito quella che si chiama “inversione di ruoli”, ovvero il mantenimento di una relazione dove sono presenti una mamma ed un papà ancora bisognosi di cure, attenzioni, accudimento, e una bambina che ha potuto giocare con la sua onnipotenza, non avendo limiti.
Laura, essendo poi molto sensibile, non solo ha assunto il ruolo genitoriale per poter decidere, comandare, dirigere la vita quotidiana della famiglia ma, sentendo la sua mamma ed il suo papà molto fragili e bisognosi si è assunta anche il ruolo della figura accudente, facendo le coccole a loro al posto che riceverle, decidendo per loro al posto che lasciarsi gestire, organizzando la quotidianità proprio come dovrebbero fare una mamma ed un papà.
Quindi…quanto è importante vedere da adulti i propri bisogni irrisolti, ancora presenti per diversi motivi, poterci fare i conti, per far sì che non ricadano in modo turbolento sui propri bambini.

MAMMA E PAPA’ SI SEPARANO: QUANDO E COME DIRLO AL BAMBINO.

La domanda che questa mamma si porta dietro ormai da tempo è: “lo dico o non lo dico al mio bambino che io e il suo papà ci stiamo separando?!”.
A quante di voi è già capitato di chiedersi questo?
La preoccupazione di questa mamma era di ferire cio’ al suo bambino, di dargli un dolore grosso inelaborabile, di distruggergli il mondo incantato dell’infanzia nel quale viveva.
Questo bambino aveva circa 7 anni e la sua mamma ed il suo papà discutevano della separazione da circa un anno.
Il papà diceva che non erano presenti liti in casa, discussioni dai toni accesi, musi lunghi o qualche altro atteggiamento che potesse far pensare ad una mamma e ad un papà che non vanno più d’accordo.
Questo papà avrebbe voluto tardare il momento di comunicare al bambino la decisione di separarsi.
La mamma aveva invece il dubbio che il bambino avesse capito o, quantomeno, intuito qualcosa a riguardo.
Allora, come fare in questi casi? Quando va comunicata la scelta? Come va comunicata? I bambini capiscono lo stesso?
Partiamo dai bambini.
Io credo che, a modo loro, ai bambini arrivino dei messaggi, anche non espliciti, legati al fatto che in casa, tra mamma e papà, c’è qualcosa che non va.
Nonostante l’assenza di chiare liti o il clima di apperente serenità che i genitori cercano di mantenere, l’atmosfera emotiva e relazionale anche inconscia presente tra i due genitori non può eludere la diversità.
Ovvero, la relazione nella coppia cambia. Affettivamente non sono piu’ presenti i sentimenti tipici della relazione coniugale ma ne subentrano altri che dipingono una relazione a volte amicale, a volte tra estranei, a volte tra due guerrieri che faticano a condividere il minimo indispensabile.
Tutto ciò, nonostante le varie strategie adottate per proteggere i propri figli, ai bambini arriva dritto al cuore.
A volte, loro non chiedono, altre si’.
Quando non chiedono, non vuol dire che non abbiano capito, che non abbiano interesse a comprendere cosa sta succedendo.
Anzi. Spesso non chiedono perché vorrebbero sapere, ma hanno paura delle risposte, perché non vogliono aprire il vaso di Pandora finora rimasto ben chiuso, perché non vogliono sentirsi poi responsabili di un cambiamento distruttivo dell’ideale di famiglia che ogni bambino ha.
Tutto ciò li spaventa molto.
E spaventa anche i genitori che sono spesso, ma non sempre, consapevoli che la separazione tra loro fa cadere l’illusione di una mamma e di un papà che staranno insieme per sempre, cosa che tutti i bambini vorrebbero.
Ho scritto “non sempre consapevoli” perché, invece, a volte capita di pensare che i bambini sono in grado di superare tutto, che una separazione coniugale non è poi così un trauma, che mamma e papà ci saranno in ugual modo e quindi non cambia nulla.
Penso che per un bambino la separazione sia sempre un cambiamento della routine familiare che mina la stabilità e quindi il senso di sicurezza e fiducia di sé e negli altri.
Detto questo, è importante comunicare al proprio bambino cosa sta succedendo.
Anche il non sapere lascia spazio alle fantasie e un bambino, non capendo cosa sta succedendo, può pensare che succeda davvero di tutto, può avere delle fantasie distruttive, delle fantasie di perdita, di solitudine, di angoscia.
Il sapere, invece, rassicura, dà il senso di un maggior controllo.
Credo che la scelta di comunicare al bambino la decisione di separarsi debba essere fatta quando ormai è chiaro per entrambi i genitori di proseguire in questo senso. Sembra scontato ma, a volte, non è proprio così, ovvero c’è un chiaro periodo di crisi, la minaccia di separarsi, ma poi tutto rientra.
Una volta presente questa consapevolezza, in base alla comprensione emotiva e cognitiva del proprio bambino, sarebbe meglio comunicare la scelta in modo semplice e, soprattutto, veritiero.
L’età del bambino è una variabile presente rispetto alle scelta delle parole da utilizzare.
Il contenuto della comunicazione varia in base alla storia della famiglia.
In ogni caso, è importante fornire un perché, una motivazione che, in qualche modo, giustifica la scelta e toglie il bambino dal senso di colpa e responsabilità.
È importante comunicare anche i sentimenti, ovvero come si sentono la mamma ed il papà, come può sentirsi lui.
È importante anche dire cosa succederà, come potrà sentirsi, quali saranno i cambiamenti, dando spazio alle preoccupazioni del bambino, ai dubbi, alle paure, alla rabbia e rassicurandolo sulla presenza costante dei suoi genitori per lui.
La separazione è della coppia coniugale, non della coppia genitoriale. E questo messaggio deve arrivare al bambino!

IL GIOCO DELLA LOTTA CON I PAPA’: QUALI SONO LE REGOLE?

Il gioco della lotta è un momento che piace molto ai bambini, in particolare ai maschietti.
Piace farlo con altri bambini, con i fratelli e anche con i grandi.
Ma come mai è così importante questo gioco? Che significati può avere?
Riflettevo su questo insieme ad una mamma, che mi parlava del suo bambino di 5 anni, al quale piace molto intrattenersi con il suo papà per diverso tempo in questa attività.
Il piacere di giocare è reciproco, ma questa mamma mi diceva che il suo bambino, dopo un certo tempo, diventava incontenibile, agitato, a volte aggressivo e faceva fatica a darsi un limite.
La lotta, come gioco, sembrava quasi diventare una vera battaglia.
Se prima la mamma vedeva un bambino e un papà che giocavano insieme, utilizzando il corpo, in maniera rispettosa e trasformando la lotta quasi in una danza di abbracci e risate, in un secondo tempo si è chiesta quanto e come non stessero superando un limite accettabile.
Perchè nell’attività questo bambino aveva iniziato a sfidare verbalmente, con toni accesi, e fisicamente, mostrandosi minaccioso, saltava in testa al suo papà quasi senza consapevolezza del benessere dell’altro, i tocchi con le mani erano diventati intensi e forti, tentava di utilizzare calci o gomitate.
D’altra parte, l’avversario, il padre, si mostrava passivo, inerme, non reagiva contenendo e ricordando l’importanza del rispetto e le regole del gioco, ma si adattava ai comportamenti del suo piccolo, accondiscendendo ad esso.
I bambini, soprattutto intorno a quest’età, vivono il loro papà sia come una figura da imitare, sia come una sorta di rivale. Questo è un processo di crescita tipico.
I bambini hanno bisogno di credere in parte alla fantasia di poter vincere contro il papà per essere i migliori o i più forti e, dopo, hanno bisogno di ricordare che il papà è una figura adulta e, in termini di onnipotenza, colui che non si lascia sfidare, vincere, abbattere simbolicamente dal proprio bambino.
Questi due passaggi gli permettono di crescere forti, con una buona autostima, con un’immagine paterna vicente da poter imitare e, nello stesso tempo, la presenza di un papà che controlla la loro fantasiosa onnipotenza e non gli permette di oltrepassare il limite, trasmette loro il senso del contenimento, delle regole, della regolazione.
Questa mamma aveva proprio capito che il gioco si era trasformato in qualcosa di controproducente e aveva potuto dare ad esso un significato relazionale ed affettivo costruttivo.

QUANDO SI PARLA MALE DEGLI ALTRI: QUALE MECCANISMO STA DIETRO A TALE COMPORTAMENTO?

A volte, ci si ritrova a parlar male delle altre persone.
Lo si fa tra amiche, tra colleghe, con il proprio compagno, e lo si fa anche dallo psicologo, quando quello sarebbe il luogo dove parlare di sé, dei propri pensieri e delle proprie emozioni.
Ma perché succede così? Quale meccanismo c’è alla base?
Spesso si tratta di un meccanismo di difesa per il quale attraverso l’altro si parla di sé.
Ovvero, a volte succede che è difficile riconoscere degli aspetti di sé e allora li si vede nell’altro e li si critica.
Ma la critica all’altra persona diventa, inconsapevolmente, una critica a sé.
Di solito, sono degli aspetti difficili, dolorosi, delle questioni irrisolte, un aspetto del carattere o un modo di pensare che non piace.
Spesso, chi adotta questo meccanismo, non si rende comunque conto di questa dinamica.
Questi aspetti, difficili da tollerare se pensati su di sé, si crede facciano solo parte dell’altro.
Ricordo una mamma critica su tutto, alla quale non andava bene nulla: era arrabbiata con la babysitter, non condivideva ciò che faceva la suocera, ogni pensiero delle amiche era oggetto di giudizio, suo marito non si comportava come lei desiderava, dei figli andava bene poco e niente ed ogni incontro con lei diventava un processo di accusa contro gli altri.
Nella sua storia personale, si ritrovavano sorprendentemente aspetti simili, se non identici, alle storie che lei raccontava sugli altri.
I miei tentativi di mostrarle queste somiglianze cadevano nel nulla.
Per lei, inizialmente, era intollerabile il pensiero di rispecchiarsi in queste persone che lei tanto giudicava.
Con il passare del tempo, questo rispecchiarsi diventava più accettabile.
Questa mamma iniziava a vedersi negli altri, a rispecchiarsi in loro, a capire che certe cose appartenevano a lei e non a loro.
È stato per lei un passaggio di crescita difficile.
Tuttavia, le ha permesso di vivere più serenamente.
Immaginate che davvero nulla andava per il verso giusto prima. Credete sia facile vivere così? Questa mamma, all’interno di questo vortice di giudizio, si sentiva davvero molto sola.
Una volta compreso questo meccanismo di difesa, che le era stato utile per proteggersi dal vedersi dentro, ma che non le serve più, ha iniziato ad accettarsi per quello che era, nei suoi aspetti più facili da ammettere ma anche in quelli più difficili.
Accettarsi voleva dire per lei apprezzarzi, credere in sé, credere di valere, sapere di valere, riconoscersi delle cose positive.
Vi lascio immaginare che volo pindarico ha fatto la sua autostima.
Eh sì, perché dietro le numerose critiche non pensate ci sia stato un bassissimo valore di sé? ! Ebbene sì.

PAURE O INCUBI NOTTURNI NEI BAMBINI.

 

“Si sveglia di notte, è inconsolabile, non riesco a tranquillizzarlo, piange fortissimo!”, mi disse una volta una mamma.
È mai capitato qualcosa del genere al vostro bambino?
Se questo succede ai bambini a partire dai 3 anni circa, allora siamo di fronte a episodi di “pavor nocturnus” o terrore notturno.
Vi spiego brevemente di cosa si tratta.
È un parziale risveglio dal sonno profondo, accompagnato da grida, agitazione, ansia molto forte, sintomi quali sudorazione o tachicardia. Quando il bambino vive questi momenti, diventa inconsolabile e, se svegliato, appare confuso e disorientato.
Solitamente, ciò avviene poco dopo l’addormentamento e dura indicativamente qualche minuto.
Il bambino, il giorno dopo, non ricorda l’accaduto.
Questo fenomeno, secondo i vari studi, accade principalmente ai bambini tra i 3 e i 10 anni circa ed è diverso dai classici “incubi”, poiché generalmente questi ultimi vengono ricordati dal bambino, avvengono in una fase del sonno diversa ovvero quella “rem” e nell’ultima parte del sonno.
La mamma di cui sopra non sapeva proprio come gestire questa situazione con il proprio bambino. Lui, si svegliava quasi tutte le notti, da qualche settimana, e di corsa andava nel lettone dei genitori, piangendo terrorizzato. La mamma cercava di consolarlo, di abbracciarlo, di cercare di capire che cosa stesse succedendo, se avesse fatto un brutto sogno. Ma il bambino non diceva nulla. Piangeva e basta, agitato, tutto sudato, inconsolabile. La mamma diceva che le sembrava come se il suo bambino non ascoltasse. Dopo un po’ di coccole, tutto passava e il bambino proseguiva il suo sonno, a volte nel lettone tra mamma e papà.
Proprio così.
Quando avvengono questi pavor, i bambini sembrano “sconnessi” dalla realtà, non sono coscienti di ciò che sta succedendo in quel momento ed è anche per questo motivo che il giorno dopo non ricordano l’accaduto.
Le emozioni che il bambino vive in quel momento sono intense: una paura fortissima, l’impotenza, una profonda solitudine, l’angoscia più totale, l’essere schiacciati o imprigionati dai pensieri e dalle fantasie piu’ orribili.
Credo allora che, come ha fatto questa mamma, non ci siano troppe “soluzioni” al problema, se non l’esserci come figura rassicurante, che fa sentire la sua presenza, anche solo con un abbraccio, e trasmette la sensazione di protezione.
È consigliabile non svegliare completamente il bambino durante questi epidosi, al fine di evitare l’aumento ulteriore di ansia ed agitazione.
Dal punto di vista del genitore, è legittima la preoccupazione nel vedere il proprio bambino in preda al panico, perché così sembra, e la sensazione di impotenza.
Questa mamma diceva che in quelle situazioni non sapeva proprio cosa fare.
Il comprendere la tipicità di questo fenomeno ha aiutato questa mamma a credere nelle sue capacità di accudimento e a garantire quelle piccole grandi attenzioni che già stava attuando con il suo bambino.

COSA CAMBIA NELLA MENTE DI UN PRE-ADOLESCENTE?

“Non so se mi sento ancora piccola oppure che sto crescendo”.
Questo è il pensiero tipico di molti pre-adolescenti, che si trovano intorno all’età delle scuole medie alle prese con un passaggio importante, ovvero l’abbandono del mondo dell’infanzia verso un mondo più adulto.
Per molti di loro questo passaggio può essere difficile e presentare qualche ostacolo.
Dunque, cosa rappresentano per loro questi due mondi?
Essere bambini rassicura, perché l’immaginario è quello dell’accudimento, ovvero l’idea di una mamma e un papà che si sono sempre, che supportano, sostengono, fanno per e con te.
Diventare adulti vuol dire, in parte e nel loro immaginario, cavarsela un po’ da soli. Ricordo una ragazzina che mi diceva che lei non aveva voglia di tornare a casa da scuola e cucinarsi da sola il pranzo e ricordava che qualche tempo prima erano sempre la mamma o la nonna ad occuparsi di questo aspetto. È banale?! Per loro no.
Le questioni del mondo adulto riguardano anche altro.
La stessa ragazzina era anche molto preoccupata per la sessualità. Ovvero, vedeva intorno a sé le sue amiche già alle prese con il fidanzatino, già incuriosite dell’argomento o già alle prime esperienze. D’altro canto, lei stava ancora coltivando le sue amicizie, non aveva alcun minimo interesse per la sessualità, la priorità era conservare il rapporto con le amichette.
Verrebbe da chiedersi: dove sta la regola?!
Difficile a dirsi. Credo che ad oggi, c’è chi arriva prima ad affrontare le suddette questioni e c’e’ che chi arriva dopo. Forse, non è tanto il momento in termini di tempistica, ma il come le si affrontano che fa la differenza.
Il tema della sessualità è molto ampio. Alcune adolescenti o pre-adolescenti di oggi hanno una visione libera dell’argomento, che le porta a sperimentare, fare delle prove senza troppi pensieri, spesso dimenticandosi della componente affettiva, ma trasformando il tutto in un gioco, con più o meno regole.
C’è chi è più pronto e si butta, c’è invece, come la ragazzina di cui sopra, che vede, ascolta, percepisce queste dinamiche, non le comprende sul piano cognitivo, emotivo e relazionale, e se ne allontana perché in fondo spaventano. Allora, a volte, meglio restare piccole, come pensano alcune di loro.
Di questioni legate a questo fragile passaggio di crescita ce ne sarebbero molte. In generale, credo sia importante per un genitore accompagnare il proprio pre – adolescente, facilitando il passaggio all’età più adulta, trasmettendogli la presenza costante, ovvero il supporto dove poter esprimere le proprie paure, capire le dinamiche complesse e sconosciute di un mondo nuovo, elaborare il lutto per la perdita del senso di sicurezza e protezione del mondo dell’infanzia.

PERCHE’ I BAMBINI NON RISPETTANO LE REGOLE?

“Non riesco a fargli rispettare una regola, che sia una!!! Fa sempre quello che vuole, se dico qualcosa non ascolta mai”.
Quante volte vi siete ritrovate nei panni di questa mamma?
Lei sta parlando del suo ometto di 11 anni, il quale si trova a metà tra l’essere un bambino da una parte e il diventare un futuro adolescente dall’altra.
Cosa c’è dietro questa faccenda delle regole?! E dietro la difficoltà a rispettarle?!
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo fare un passo indietro, nella storia d’infanzia di questo undicenne, poiché la mamma lo descrive come un bambino che fin da piccolo faticava ad ascoltare l’adulto di riferimento, sia a casa che a scuola.
Per spiegarvi cosa può essere successo, mi vengono in mente le teorie di Winnicott, il quale sottolineo’ un rapporto diretto tra l’ “antisocialita’” ed esperienze precoci di “perdita” o deprivazione affettiva. Ovvero, se l’esperienza di perdita è traumatica ed avviene quando il bambino è molto piccolo, le tendenze a diventare “antisociali” saranno più marcate.
Con “tendenze antisociali” si puo’ intendere, in modo più o meno evidente, il mancato rispetto delle regole.
Mentre con il termine “deprivazione” si intende un’esperienza più o meno intensa di carenza affettiva. Entambe le definizioni lasciano grande spazio all’interpretazione.
I bambini, da piccoli, hanno bisogno di esprimere la propria rabbia nei confronti della figura materna. Ciò si manifesta nel gioco del bambino, oppure quando i bambini morsicano, anche durante l’allattamento, o in altre circostanze ancora.
È la risposta della mamma a questa rabbia, tipica, che permetterà al bambino di capire come fare sia con la rabbia che con le regole.
Ovvero, se la mamma tollera questa rabbia nei suoi confronti, senza lasciarsi sommergere, reagire allo stesso modo, vendicarsi, allora andrà tutto bene. Il bambino sentirà la presenza della madre, che ad esempio gioca con lui nonostante la rabbia, e sentirà di esistere, perché esiste la relazione con la mamma, che non viene distrutta dalla rabbia.
Se invece questo passaggio è difficile, il bambino penserà di dover nascondere questa parte arrabbiata di sé, per dargli poi vita in un secondo momento. In assenza della mamma nel gioco, che ad esempio si ritira perche’ non tollera la rabbia, il bambino sentira’ una mamma assente, un vuoto affettivo. Sentira’ solo rabbia, che rimane non contenuta dalla mamma stessa perche’ assente, e solo con la rabbia si sentira’ vivo. L’assenza o l’allontanamento della mamma inoltre, farà pensare al bambino di essere lui stesso la causa del distacco, perché ha provato rabbia. Si sentirà poi in colpa.
Tornando alla mamma di cui sopra, ecco allora spiegato questo problema con le regole.
La rabbia del suo bambino quindi si esprime sottoforma di non rispetto delle regole, di aggressivita’, di antisocialita’, perché quando era piccolo lei ricorda di aver avuto paura di questa rabbia, di essersi preoccupata di non saperla gestire.
La mamma racconta di averlo lasciato solo con queste emozioni forti, di non averlo contenuto abbastanza, di aver messo pochi limiti, perché vedeva che lui non reagiva come lei si aspettava e allora ricorda che per lei è stato più facile gettare la spugna.
In questi casi, può essere davvero una sfida fare i conti con un bambino molto molto arrabbiato.
Gettare la spugna, pensiero legittimo per questa mamma, alimenta la rabbia e la sensazione di onnipotenza del bambino.
È importante che ci sia presente l’altro genitore, che aiuti a colmare questo vuoto, che prenda le redini della situazione con il bambino e la sua rabbia, che aiuti l’altro genitore a riacquistare forza e sicurezza di sé.
Questa mamma era fortunata. Aveva di fianco a sé un papà molto attento e presente che è riuscito ad aiutarla in questa missione.

LA SINTONIZZAZIONE TRA UNA MAMMA E IL SUO BAMBINO.

Si parla di “sintonizzazione emotiva” riferendosi alle capacità della mamma di entrare in empatia con il proprio bambino, sintonizzandosi sui suoi bisogni per poterli soddisfare. L’osservazione o lo sguardo sono, ad esempio, degli ottimi strumenti per adempiere a questo compito.

Coi bambini piccoli è fondamentale il contatto visivo perché trasmette loro la sensazione di esistere e, a volte, accade che una mamma non riesca o non possa sostenere questa interazione. Ad esempio, se una madre soffre di depressione post partum, vive una sofferenza in cui vi è una maggiore concentrazione sui propri bisogni, con la conseguente trascuratezza dei bisogni del piccolo, che si sentirà come non visto dalla propria mamma.

In alcune ricerche si è visto come i bambini che mostrano un comportamento iperattivo, per cui sono perennemente agitati, sembrano adottare questo atteggiamento con lo scopo di catturare l’attenzione materna e il contatto, visivo e non, con lei, come per volerla “rianimare” e sentire di esistere a loro volta come conseguenza.

Allora di cosa hanno bisogno i bambini, in base a questa questione?

Che una mamma sappia adattarsi in modo “sufficientemente buono”, come direbbe Winnicott, alle esigenze del suo bambino, affinchè non debba attendere troppo a lungo una risposta alle sue richieste e abbia l’impressione di “essere lui stesso il creatore della risposta”. La risposta può riguardare l’attesa della pappa, il momento di salutarsi per andare a letto e tutti gli altri momenti di relazione mamma-bambino.

In termini più semplici, è importante che ci sia una risposta tempestiva ed adeguata della mamma, affinchè vi sia una coincidenza tra il bisogno che nasce nel bambino e la risposta che arriva dalla madre. Se si anticipano i bisogni del bambino o se si ritarda troppo nella risposta, l’effetto sarò simile in entrambi i casi: si provoca un sentimento di impotenza di fronte ad un mondo esterno che il bambino non riesce più a comprendere, poiché inizia a risultargli imprevedibile.

Le conseguenze? Il bambino può ad esempio diventare anch’esso depresso, poiché si sente solo nei suoi bisogni, oppure sviluppare capacità di controllo verso la madre il che lo rende più insicuro, dipendente e sensibile ai cambiamenti.

Dove si possono notare questi segnali? Ad esempio, nelle esperienze di separazione. Se il bambino avrà una interiorizzato una mamma sufficientemente buona, queste esperienze avverranno con naturalità: al distacco dalla mamma il bambino potrebbe ricorrere all’auto-consolazione, ad esempio succhiandosi il pollice, ritrovando in questa e altre attività il piacere di stare con la mamma.

Viceversa, quando si separa e non regge il vuoto del distacco, ha bisogno di controllare all’esterno ciò che gli sfugge all’interno, quindi diventa dipendente dall’ambiente, ad esempio tramite i capricci, che diventano un mezzo per tentare di controllare la dipendenza.

O ancora, se un bambino non ha investito affettivamente nella relazione materna, sostituisce la madre, sempre percepita come lontana dai suoi bisogni, con comportamenti quali il dondolio, battere la testa contro il muro, strapparsi i capelli. Che significato ha tutto ciò? Siccome non sente una madre che, tramite lo sguardo, gli trasmette la sensazione di esistere, trova da solo questa sensazione con comportamenti auto lesivi, ovvero farsi del male gli permette di sentire il suo corpo e sentire di esistere.

Abbiamo parlato di capacita di sintonizzazione ed una mamma può chiedersi “chissà se io ce l’ho?! Chissà come è andata con il mio bambino?!”. Nella mamma è una capacità innata che fa parte dell’istinto materno; come detto, in alcuni casi può nascondersi dietro altre difficoltà o sofferenze, ma non la si perde.

LA PIU’ GRANDE DOTE DI UNA MAMMA

download (2)Qual è uno dei compiti più importanti di una mamma con il suo neonato? La rêverie. Vi spiego di cosa si tratta in termini semplici.
Innanzitutto è una capacità innata di tutte le mamme, che si sviluppa grazie ai primi contatti con il neonato e cresce, cambiando, nel tempo.
La mamma, fin dalla gravidanza, è per il bambino il suo “contenitore”. La mamma contiene il bambino nella pancia durante la gestazione, lo con-tiene tenendolo in braccio quando nasce, contiene il suo pianto, le sue emozioni.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la mamma ha la capacità di recepire ed interpretare i messaggi del suo bambino e di comprendere l’origine delle sue paure, delle sue angosce e delle sue sensazioni fisiche.
Per comprenderci, mi riferisco ad esempio al momento in cui il bambino piange e la madre, quasi magicamente, riconosce il pianto del figlio, sa a cosa è legato e quali sono i bisogni sottostanti. Come sanno le mamme, non è necessario nessuno studio, nessun libro da consultare, ma è una dote che la mamma ha naturalmente. Allo stesso tempo, il bambino sa che può contare su di essa per esprimere i suoi vissuti o disagi, sa che c’è un “contenitore mamma” che si occupa di lui e dei suoi bisogni.
A volte, può capitare che questa competenza nella mamma sia bloccata o limitata. Mi riferisco a quelle situazioni, come ad esempio, una depressione post partum, che interferisce a creare questa sintonia nella coppia mamma-bambino e che merita un supporto esterno per essere a sua volta contenuta.
Ma torniamo al concetto di rêverie, perché finora ho parlato di “contenimento”. Lo spiego con un esempio.
Il bambino piange, la mamma interviene, lo prende in braccio, gli parla e va incontro al suo bisogno, e il bambino si calma.
Cos’è successo in questa semplice e breve sequenza?
Il bambino, tramite il pianto, ha gettato fuori da sé qualcosa di insopportabile per la sua mente. Quando i bambini piangono, e non solo i bambini, esternano un’emozione spiacevole che non possono trattenere dentro di sé.
La mamma, con la sua empatia, sensibilità e disponibilità, lo ha contenuto, cioè accolto, ovvero si è resa disponibile ad aiutare il suo bambino, ad accettare ciò che il bambino le proponeva.
È qui che interviene la capacita di rêverie della mamma.
Essa trasforma questo contenuto doloroso, il pianto, in qualcosa di più tollerabile per il bambino, ovvero, ad esempio abbracciandolo o dandogli il latte, gli mostra che il pianto può passare, che il suo bisogno può essere colmato.
Il bambino allora “apprende” che se prima c’è un bisogno che crea dolore, frustrazione, pianto, dopo questo può passare e trasformarsi in un’esperienza piacevole, rassicurante, di affetto.
Perché ho voluto dare tanta attenzione a questa competenza di rêverie?
Perché è fondamentale per il bambino piccolo vivere esperienze di questo tipo, ovvero è importante che una madre ci sia nel momento in cui il bambino esprime un bisogno e necessita di lei come contenitore di questo bisogno, come colei che fa passare la frustrazione ad esso legata.
Se questo avviene, i bambini crescono sicuri di sé, capaci di gestire e tollerare le proprie frustrazioni, più indipendenti da grandicelli.
Quindi, in sostanza, l’esserci della madre con la mente prima, favorendo una buona dipendenza, aiuta all’autonomia.
Alcune teorie sostengono il contrario. Ad esempio, il lasciarli piangere cosicché si abituano alla frustrazione momentanea e possono fare da soli più facilmente.
Io credo che così la madre non passi al bambino la capacità di elaborare le emozioni e le frustrazioni, ma trasmette il suo non esserci. Il bambino apprende questo.
“Lavorare” con le emozioni è utile farlo lungo tutta la crescita di un bambino, poiché la vita, immancabilmente, gli presenterà diverse occasioni emotive che dovrà essere in grado di affrontare.