Categoria: Children Therapy

Cosa mettere nella valigia per poter iniziare attrezzati il nuovo anno scolastico alla materna?

È tempo di vacanza, di pausa, di relax, ed è fondamentale potersi godere questo spazio vuoto, per potersi ricaricare e permettere ai bambini di vivere un tempo di leggerezza.
La scuola poi ricomincia a settembre, quindi bisogna comunque essere “attrezzati” per un buon inizio.
La scuola dell’infanzia può essere immaginata da un genitore come il luogo del gioco, delle prime amicizie e del divertimento. Ed è in parte così.
A volte, questo immaginario lascia intendere il primo ingresso in struttura come qualcosa di estremamente semplice, come il luogo dove un bambino può stare, senza troppe fatiche.
Si spera sia così. Tuttavia, se ci mettiamo nei panni dei nostri bambini, tale passaggio richiede delle competenze da non sottovalutare.
In primis, sul piano della relazione con il genitore.
L’ingresso a scuola può rappresentare, per alcuni, il primo distacco dalla mamma o dal papà in un contesto non familiare, da conoscere, con delle figure nuove, estranee alla famiglia allargata, con molti altri bambini.
Sul piano relazionale ed affettivo, le competenze che un bambino ha bisogno per affrontare tutto questo sono prima di tutto legate alla tolleranza della distanza dal genitore poi, in secondo luogo, le competenze per approcciarsi a nuove relazioni, con adulti e altri pari.
È come quando un adulto cambia lavoro e viene inserito in un contesto nuovo e non conosce nessuno, capi o colleghi.
Le domande che un genitore può chiedersi per poter capire se il suo bambino si sente pronto a tale passaggio possono essere le seguenti: il mio bambino sa stare senza di me? Per quanto tempo? Trova consolazione in altre figure adulte? O con se stesso? Sa chiedere aiuto ad altri? Conosce i bambini? È in grado di gestire una relazione tra pari? Con quanti bambini sa stare in gruppo? Conosce le regole della condivisone? O quelle del rispetto reciproco?
Le domande possono essere tante altre ancora.
Un secondo punto che merita attenzione è l’indipendenza, intesa non solo, come detto prima, stare senza il genitore, ma anche il saper fare.
Immaginate il vostro bambino all’interno della struttura, una volta consolidata la prima competenza sociale, sopra descritta.
Cosa è importante che sappia fare in termini di autonomie? Sa mangiare da solo? È in grado di occuparsi della sua igiene personale da solo? Sa cambiarsi, alcuni indumenti, da solo?
La presenza dell’insegnante è puntuale e necessaria nelle prime fasi e in caso di bisogno, come è altrettanto importante che un bambino sappia gestire alcuni “saper fare” in autonomia.
Un terzo punto potrebbe essere l’aspetto cognitivo.
Le scuole dell’infanzia sono improntate primariamente al gioco, quindi con il termine “cognitivo” non si intende il saper disegnare bene, scrivere magari il proprio nome, o essere in grado di svolgere un’attività, un lavoretto, perfettamente.
Queste sono cose che si apprendono nel tempo, in base al proprio sviluppo o all’esercizio e al consolidamento dell’apprendimento.
Piuttosto, appare importante che un bambino possa ad esempio esprimersi. Quindi, utilizzare un linguaggio comprensibile e comunicativo, che possa permettergli di vivere bene le relazioni con l’altro.
Torniamo al primo punto, le competenze relazionali, la base di tutte le altre.
In generale, sul piano cognitivo, ci si può chiedere se il proprio bambino sia “capace” di stare in un contesto nuovo, capace di accogliere i vari stimoli che in esso sono presenti su più fronti e se, nelle sue capacità, sia un bambino sereno, che sta bene, felice di andare tutte le mattine a sperimentarsi in nuove esperienze di crescita.

 

I bambini che fanno i “piccoli”

La psicologia dello sviluppo delinea delle fasi di crescita e delle tappe evolutive tipiche dei bambini dalla nascita fino all’adolescenza.
Ovviamente, sono da intendersi come una sorta di “linee guida”, nel senso che ci sono i bambini che le rispettano appieno, ci sono i bambini la cui crescita è ballerina, ci sono i bambini che appaiono come in ritardo rispetto alla classica tappa.
Questi tipi di ritardi possono essere intesi come fisiologici oppure come affettivi.
Nel primo caso, l’evoluzione avviene spontaneamente, mentre nel secondo caso possiamo trovarci di fronte ad un “blocco” nella crescita.
Penso a tutti quei bambini, ad esempio nella fascia d’età 3-6 anni, che appaiono più piccoli, nei comportamenti, nello sviluppo delle autonomie, nel linguaggio, nell’autoregolazione delle emozioni, nell’interiorizzazione delle regole, nello sviluppo delle relazioni sociali.
Questi sono gli ambiti dove, maggiormente, possono osservarsi dei blocchi o dei ritardi di crescita.
Tre spunti di riflessione: perchè avviene questo? Come stanno i bambini a riguardo? Cosa si può fare?
Rispetto alle motivazioni che possono spiegare quanto detto ce ne sono davvero molte.
In primis possiamo pensare agli effetti della pandemia e, in particolare, del lockdown: si è bloccato tutto, non solo la realtà esterna ma, in molti casi, quella interna intesa come la crescita dei bambini, che è andata incontro ad una regressione, per cui certe tappe, ormai acquisiste e anche consolidate, sono andate perse.
Altre spiegazioni possono essere ricercate nelle dinamiche relazionali presenti tra i bambini e i genitori. Per numerose cause, potrebbe essere che un bambino espliciti il suo bisogno di rimanere piccolo con alcuni comportamenti che trasmettono questo messaggio. Allo stesso modo, nei genitori potrebbe manifestarsi il bisogno di vedere o sentire ancora piccolo il proprio bambino per cui si relazionano ad esso in tal modo, frenando la crescita. In altri casi, invece, potrebbe essere presente una sorta di “trascuratezza”, ovvero una fatica del genitore a comprendere i bisogni del bambino e a rispondervi in modo consono: non per cattive intenzioni, ovviamente, ma semplicemente perchè va bene così, il problema non viene visto, oppure viene percepito ma lasciato in un angolino, magari per paura di affrontarlo.
Tutte ipotesi che, fortunatamente, si possono osservare e “curare”.
In queste situazioni, i bambini possono stare bene, come no.
Nel primo caso, stanno “bene” perchè possono beneficiare di maggiori attenzioni, ad esempio, o essendo trattati come più piccoli, possono beneficiare di cure intense, in termini di qualità e tempo, tipiche dei bambini piccoli.
L’altra faccia della medaglia però esiste e si vede ad esempio nella differenza che i bambini possono percepire rispetto ad altri bambini, facendo così emergere temi quali il sentirsi diversi, incapaci di, ancora dipendenti, “piccoli” nel senso critico del termine, come lo intendono i bambini quando si prendono in giro.
D’altro canto, sul versante psicologico, questa condizione potrebbe incistarsi a livello psichico e far permanere il blocco.
Cosa si può fare allora?!
Intanto poter vedere quanto succede è già un buon primo passo. Per alcuni genitori è faticoso e magari doloroso prendere coscienza di alcuni aspetti difficili del proprio bambino, per cui è ammirevole già solo aprirsi alla possibilità.
Il confronto con l’altro è indispensabile per capire: i bambini trascorrono la maggior parte del tempo nella scuola dell’infanzia, per cui è utile poter avere in mente il punto di vista del personale scolastico rispetto alla crescita del bambino.
Il punto di vista anche dello specialista chiude il cerchio e poter pensare ad un lavoro di squadra su più fronti permette sicuramente un cambiamento.
Sul piano pratico, qualora si rilevasse il problema è utile poter adottare tutti quei cambiamenti, nello stile di vita e di relazione, che possono facilitare la crescita e lo sblocco del bambino.
Sono altrettanto utili le letture, che permettono di arrivare a dirsi delle cose, laddove la parola non arriva.

Un salto nel buio?

 

 

 

 

 

 

I bambini sono prossimi a rientrare a scuola e le maestre, dopo così tanto tempo, finalmente sono pronte ad accoglierli nuovamente, come i genitori a lasciarli nelle loro braccia.
Ma come se lo immaginano questo rientro i bambini?
Quali i pensieri e quali le emozioni?
A cosa andranno incontro?

 

 

Lo scenario è il seguente.
I nostri cuccioli erano abituati ad una routine, quella quotidiana, che prevedeva andare a scuola, salutare i genitori, lasciarli per un periodo più o meno lungo, rivederli e tornare a casa con loro per concludere la giornata.
Arriva i lockdown.
Genitori e bambini si ritrovano a casa. Inizialmente solo a casa, h 24, tutti assieme.
Inizia qualche riapertura e qualche genitore rientra al lavoro, affidando il bambino, per un tempo più o meno lungo, ad una figura di accudimento specifica.
In altre famiglie, invece, prosegue una sorta di lockdown, inteso come lo stare assieme, a volte ancora h24, ma con la possibilità di uscire da casa.

Nella mente dei bambini, tutto ciò ha significato una rivoluzione dal punto di vista degli affetti e delle relazioni, ovvero un passaggio da una separatezza affettiva dal caregiver, elaborata, appresa e funzionale, ad una vicinanza quasi simbiotica, tipica dei bebè.
E’ anche per questo motivo che si vedono oggi molti bambini regrediti su diversi piani, a livello di alcuni comportamenti e nei passaggi di crescita.
Il lockdown è stata, nella mente del bambino, una sorta di lunga vacanza.
I genitori, e anche le maestre, sanno che bene che, dopo una vacanza, una pausa, più o meno lunga, su alcune dinamiche, su alcune conquiste di crescita, spesso bisogna un pò tornare indietro.
Il mio pensiero, in questi casi, è che il tornare indietro serve per andare avanti, magari anche con qualche qualità aggiuntiva, e non è mai una regressione agli inizi.
Questi sono quindi i nostri bambini di oggi.
In questi giorni devono affron

 

tare l’esperienza del ritorno a scuola.
Per alcuni di essi è un tornare, per altri è una nuova esperienza.
Ogni scuola ha le sue regole per quanto riguarda la situazione Covid-19.
Alcune insegnanti porteranno la mascherina, altre la visiera.
In alcune scuole, l’accesso del genitore è limitato al triage o al parco esterno, in altre sarà concesso l’accompagnamento in classe, per un breve tempo.
I bambini cosa pensano a riguardo?!
Mettendoci un poco nei loro panni, possiamo forse riflettere su alcune questioni, da tenere a mente, affinché questo rientro possa essere più protettivo possibile per loro, e non un salto nel vuoto, sia nel caso in cui sia un rientro, sia, e soprattutto, nel caso in cui sia un nuovo ingresso.

 

In primis la mascherina e la visiera.
E’ vero che i bambini sono abituati a vedere gli adulti, e anche altri pari, con questi aggeggi, oramai conosciuti e non troppo spaventanti.
E’ altrettanto vero però che una mamma o un papà lasceranno il loro bambino, magari di 3 anni, affidato alla maestra, per loro una sconosciuta, che indossa tale protezione.
Quali fantasie avranno a riguardo?!
Nel caso della mascherina, i bambini non vedranno totalmente il volto di questa nuova figura di accudimento, quindi perderanno una gran parte del non verbale, delle sue espressioni emotive, di tutto quello che può comunicare attraverso metà volto.
Un’indicazione per le maestre per rendere più confortevole un primo distacco ed il soggiorno intero del bambino a scuola, potrebbe essere quella di compensare quest’assenza attraverso le parole, verbalizzando le proprie emozioni, comunicando al bambino con gli occhi, che sono un ottimo canale di espressione emotiva, piuttosto che con l’intero corpo.
I genitori possono rendere quindi attento il bambino a tali indicatori, aiutandolo così a conoscere il nuovo adulto di riferimento e a fidarsi di lui.

 

Conoscere l’ambiente è altrettanto importante.
I bambini sono più sicuri se hanno una minima idea del luogo in cui verranno portati.
Se questo luogo è poi visitato con un genitore, facilmente diventa un luogo affettivo sicuro e non un posto che può incutere paure.

E’ fondamentale curare i momenti di distacco, osservando come il bambino si comporta, più che quello che dice.
Osservando le sue emozioni, l’espressione di esse attraverso il corpo, cercando di capire il momento in cui è davvero a suo agio, ovvero quello giusto per poter salutare il genitore e passare nelle braccia della maestra.

 

Se il bambino non fosse pronto, lo si può aiutare con quegli oggetti che hanno proprio la funzione di passaggio, gli oggetti tradizionali.
Una copertina, un peluche, un qualsiasi oggetto che il bambino porta con sé sempre e che tranquillizza, rassicura, rende felici.
Può anche essere un oggetto che appartiene alla mamma o al papà, un braccialetto ad esempio, o una foto, un qualcosa che funga da ricordo del genitore e che colmi il vuoto che il bambino sente in sua assenza.

 

Quando il genitore torna a scuola, a fine giornata, oltre a recuperare il tempo mancato e quindi dedicargli dei momenti esclusivi, in assenza di fratelli o altri adulti, il cellulare o cose da sbrigare, può fare un ottimo lavoro di elaborazione della giornata con lui.
Può chiedere al bambino com’è andata la giornata, cos’ha fatto, ma soprattutto come si è sentito.
Può accoglierlo nelle sue emozioni, semplicemente stando in ascolto, aiutandolo a capirle, contestualizzandole, fornendo rassicurazione dove necessaria.

I bambini potranno manifestare delle piccoli crisi.
E’ del tutto normale. Direi che è il loro modo, sano, di elaborare questo distacco, di buttar fuori dei sentimenti sgradevoli, per poter andare avanti.
Qualche bambino potrà perdere dei comportamenti di crescita già acquisiti e tornare indietro nelle tappe di sviluppo, ad esempio chiedendo di dormire nel lettone.
Io credo sia importante poter assecondare le loro richieste, intese come bisogni specifici per questa fase, senza il timore di tornare troppo indietro o di sbagliare.
La cosa fondamentale per un bambino è esserci, in ascolto delle sue emozioni, assecondando, per quanto possibile, i suoi bisogni.

 

Fase 1, fase 2, fase 3…e le regressioni nei bambini?!

Molti sono i pensieri riguardo al fatto che in tutta questa faccenda del Covid i bambini siano quelli dimenticati, dalle persone, dai decreti.
Mettiamoci quindi nei loro panni.
I diversi studi scientifici riguardo la loro salute psichica parlano di alcuni effetti di queste varie fasi sui loro comportamenti.
Si parla ad esempio di disturbi del comportamento, difficoltà nella regolazione delle emozioni o degli stati fisiologici, disregolazione del comportamento alimentare, regressione.
Vorrei fermarmi proprio su quest’ultimo punto, perché non è da poco, a parer mio.
Cosa significa questa parola?
Indica il fatto che se un bambino, ad un certo punto della sua crescita, è arrivato a raggiungere e completare alcune tappe di sviluppo, per qualche determinato fattore, sembra tornare indietro rispetto a questa crescita.
Ad esempio, un bambino che può aver raggiunto il controllo sfinterico, per cui abbandona l’uso del pannolino, a causa di un forte stress, può tornare a chiedere, più o meno esplicitamente, l’uso di questo oggetto vissuto come qualcosa di rassicurante.
Tornando alla situazione Covid, quale può essere il legame con la regressione?!
Come mamma e come psicoterapeuta dell’età evolutiva posso raccontare quello che ho vissuto e visto.
I bambini, di qualsiasi età, sono stati catapultati, e direi che la metafora è piuttosto calzante, dentro una realtà diversa.
Forse già conosciuta ma comunque diversa dalla precedente routine in cui erano immersi.
Da un giorno all’altro, si sono visti i genitori passare dall’andare al lavoro allo stare a casa.
È venuta a mancare tutta la routine quotidiana del distacco e del ritrovarsi.
I genitori, forse uno o entrambi, erano lì, 24/24h a loro disposizione.
Questo nella fase 1.
I bambini ci sono andati a nozze e, perché no, anche qualche genitore.
La regressione, dal mio punto di vista, ha cominciato a mostrare i suoi effetti già qui.
La relazione h24 con il genitore è tipica dei bebe’, i quali possono godere di questo accudimento esclusivo indispensabile per una buona crescita.
I bambini, catapultati dentro questa situazione già sperimentata, è come se avessero potuto riattivare le memorie di quei tempi oramai passati.
Ed ecco che alcuni comportamenti più tipici di una fase precedente hanno cominciato a rispuntare fuori.
C’è chi è tornato a dormire nel lettone, c’è chi è tornato a farsi imboccare, c’è chi non è più riuscito a stare separato dalla mamma o dal papà, e così via.
In tal modo, i bambini regredendo tornano a beneficiare di un accudimento primario.
Loro ci sguazzano ma, forse, qualche genitore un po’ meno.
Arriva la fase 2.
Alcuni genitori rientrano al lavoro.
Chi in modo più graduale, chi da un giorno all’altro.
Prendiamo questi ultimi.
I bambini di questi genitori si trovano nuovamente catapultati dentro un’altra realtà, che sicuramente già conoscono e ricordano, ma il tutto avviene troppo velocemente, senza avere il tempo di elaborare il passaggio e comprenderne il perché.
I bambini si ritrovano affidati a nonni o tate, i genitori dimezzano, chi più chi meno, il tempo per loro.
Si sentono abbandonati, non comprendono i vari cambiamenti, faticano ad adattarsi.
Cos’è meglio di un’altra regressione per poter chiedere implicitamente ad un genitore l’accudimento perso?!
Ecco che allora ancora alcuni di loro manifestano altri tipi di comportamenti regressivi, oppure c’è chi esplode di rabbia o di qualsiasi altra emozione, indispensabile per chiedere aiuto.
Quanti di voi hanno notato atteggiamenti simili nei propri bambini?!
In alcuni casi, quando le regole vengono dall’alto, non si può fare nulla, purtroppo.
In altri casi, quando la situazione è maggiormente gestibile, penso sia fondamentale seguire alcuni piccoli ma importanti passi:
1. Preparare i bambini al cambiamento. A qualsiasi età, spiegare cosa sta succedendo e cosa accadrà. Questo li prepara e li rassicura, perché permette loro un maggior controllo della situazione, potendola conoscere di più.
2. Predisporre dei cambiamenti graduali, distanziati nel tempo, tendendo conto delle reazioni dei bambini ad ogni passaggio che si aggiunge.
3. Osservarli. Nelle loro reazioni emotive, nei loro comportamenti, nei giochi e nei disegni, in quello che dicono. I bambini, in base all’età, utilizzano diversi modi per esprimersi. Ognuno di loro è una fonte preziosa di conoscenza sul loro mondo interno.
4. Recuperare. Ciò che si toglie, si rida’. Se al bambino viene tolto del tempo condiviso con il genitore è importante poterglielo restituire in qualche modo.
5. Accettare la regressione. Spesso i genitori ne sono spaventati, perché la regressione trasmette il senso di qualcosa che non sta andando per il verso giusto, di qualcosa di interrotto, di irrecuperabile, di perso. Può essere così. Ma è una cosa momentanea. Come un bambino torna indietro, andrà avanti. Per cui è utile accettare ciò che il bambino ha bisogno in quel momento, ad esempio tornare a dormire nel lettone, per poi ripristinare la normalità perduta appena sarà pronto. È come andare sull’altalena: più lo slancio indietro è forte, più lo sarà anche quello in avanti.

PAURE O INCUBI NOTTURNI NEI BAMBINI.

 

“Si sveglia di notte, è inconsolabile, non riesco a tranquillizzarlo, piange fortissimo!”, mi disse una volta una mamma.
È mai capitato qualcosa del genere al vostro bambino?
Se questo succede ai bambini a partire dai 3 anni circa, allora siamo di fronte a episodi di “pavor nocturnus” o terrore notturno.
Vi spiego brevemente di cosa si tratta.
È un parziale risveglio dal sonno profondo, accompagnato da grida, agitazione, ansia molto forte, sintomi quali sudorazione o tachicardia. Quando il bambino vive questi momenti, diventa inconsolabile e, se svegliato, appare confuso e disorientato.
Solitamente, ciò avviene poco dopo l’addormentamento e dura indicativamente qualche minuto.
Il bambino, il giorno dopo, non ricorda l’accaduto.
Questo fenomeno, secondo i vari studi, accade principalmente ai bambini tra i 3 e i 10 anni circa ed è diverso dai classici “incubi”, poiché generalmente questi ultimi vengono ricordati dal bambino, avvengono in una fase del sonno diversa ovvero quella “rem” e nell’ultima parte del sonno.
La mamma di cui sopra non sapeva proprio come gestire questa situazione con il proprio bambino. Lui, si svegliava quasi tutte le notti, da qualche settimana, e di corsa andava nel lettone dei genitori, piangendo terrorizzato. La mamma cercava di consolarlo, di abbracciarlo, di cercare di capire che cosa stesse succedendo, se avesse fatto un brutto sogno. Ma il bambino non diceva nulla. Piangeva e basta, agitato, tutto sudato, inconsolabile. La mamma diceva che le sembrava come se il suo bambino non ascoltasse. Dopo un po’ di coccole, tutto passava e il bambino proseguiva il suo sonno, a volte nel lettone tra mamma e papà.
Proprio così.
Quando avvengono questi pavor, i bambini sembrano “sconnessi” dalla realtà, non sono coscienti di ciò che sta succedendo in quel momento ed è anche per questo motivo che il giorno dopo non ricordano l’accaduto.
Le emozioni che il bambino vive in quel momento sono intense: una paura fortissima, l’impotenza, una profonda solitudine, l’angoscia più totale, l’essere schiacciati o imprigionati dai pensieri e dalle fantasie piu’ orribili.
Credo allora che, come ha fatto questa mamma, non ci siano troppe “soluzioni” al problema, se non l’esserci come figura rassicurante, che fa sentire la sua presenza, anche solo con un abbraccio, e trasmette la sensazione di protezione.
È consigliabile non svegliare completamente il bambino durante questi epidosi, al fine di evitare l’aumento ulteriore di ansia ed agitazione.
Dal punto di vista del genitore, è legittima la preoccupazione nel vedere il proprio bambino in preda al panico, perché così sembra, e la sensazione di impotenza.
Questa mamma diceva che in quelle situazioni non sapeva proprio cosa fare.
Il comprendere la tipicità di questo fenomeno ha aiutato questa mamma a credere nelle sue capacità di accudimento e a garantire quelle piccole grandi attenzioni che già stava attuando con il suo bambino.

PERCHE’ I BAMBINI NON RISPETTANO LE REGOLE?

“Non riesco a fargli rispettare una regola, che sia una!!! Fa sempre quello che vuole, se dico qualcosa non ascolta mai”.
Quante volte vi siete ritrovate nei panni di questa mamma?
Lei sta parlando del suo ometto di 11 anni, il quale si trova a metà tra l’essere un bambino da una parte e il diventare un futuro adolescente dall’altra.
Cosa c’è dietro questa faccenda delle regole?! E dietro la difficoltà a rispettarle?!
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo fare un passo indietro, nella storia d’infanzia di questo undicenne, poiché la mamma lo descrive come un bambino che fin da piccolo faticava ad ascoltare l’adulto di riferimento, sia a casa che a scuola.
Per spiegarvi cosa può essere successo, mi vengono in mente le teorie di Winnicott, il quale sottolineo’ un rapporto diretto tra l’ “antisocialita’” ed esperienze precoci di “perdita” o deprivazione affettiva. Ovvero, se l’esperienza di perdita è traumatica ed avviene quando il bambino è molto piccolo, le tendenze a diventare “antisociali” saranno più marcate.
Con “tendenze antisociali” si puo’ intendere, in modo più o meno evidente, il mancato rispetto delle regole.
Mentre con il termine “deprivazione” si intende un’esperienza più o meno intensa di carenza affettiva. Entambe le definizioni lasciano grande spazio all’interpretazione.
I bambini, da piccoli, hanno bisogno di esprimere la propria rabbia nei confronti della figura materna. Ciò si manifesta nel gioco del bambino, oppure quando i bambini morsicano, anche durante l’allattamento, o in altre circostanze ancora.
È la risposta della mamma a questa rabbia, tipica, che permetterà al bambino di capire come fare sia con la rabbia che con le regole.
Ovvero, se la mamma tollera questa rabbia nei suoi confronti, senza lasciarsi sommergere, reagire allo stesso modo, vendicarsi, allora andrà tutto bene. Il bambino sentirà la presenza della madre, che ad esempio gioca con lui nonostante la rabbia, e sentirà di esistere, perché esiste la relazione con la mamma, che non viene distrutta dalla rabbia.
Se invece questo passaggio è difficile, il bambino penserà di dover nascondere questa parte arrabbiata di sé, per dargli poi vita in un secondo momento. In assenza della mamma nel gioco, che ad esempio si ritira perche’ non tollera la rabbia, il bambino sentira’ una mamma assente, un vuoto affettivo. Sentira’ solo rabbia, che rimane non contenuta dalla mamma stessa perche’ assente, e solo con la rabbia si sentira’ vivo. L’assenza o l’allontanamento della mamma inoltre, farà pensare al bambino di essere lui stesso la causa del distacco, perché ha provato rabbia. Si sentirà poi in colpa.
Tornando alla mamma di cui sopra, ecco allora spiegato questo problema con le regole.
La rabbia del suo bambino quindi si esprime sottoforma di non rispetto delle regole, di aggressivita’, di antisocialita’, perché quando era piccolo lei ricorda di aver avuto paura di questa rabbia, di essersi preoccupata di non saperla gestire.
La mamma racconta di averlo lasciato solo con queste emozioni forti, di non averlo contenuto abbastanza, di aver messo pochi limiti, perché vedeva che lui non reagiva come lei si aspettava e allora ricorda che per lei è stato più facile gettare la spugna.
In questi casi, può essere davvero una sfida fare i conti con un bambino molto molto arrabbiato.
Gettare la spugna, pensiero legittimo per questa mamma, alimenta la rabbia e la sensazione di onnipotenza del bambino.
È importante che ci sia presente l’altro genitore, che aiuti a colmare questo vuoto, che prenda le redini della situazione con il bambino e la sua rabbia, che aiuti l’altro genitore a riacquistare forza e sicurezza di sé.
Questa mamma era fortunata. Aveva di fianco a sé un papà molto attento e presente che è riuscito ad aiutarla in questa missione.

LA PIU’ GRANDE DOTE DI UNA MAMMA

download (2)Qual è uno dei compiti più importanti di una mamma con il suo neonato? La rêverie. Vi spiego di cosa si tratta in termini semplici.
Innanzitutto è una capacità innata di tutte le mamme, che si sviluppa grazie ai primi contatti con il neonato e cresce, cambiando, nel tempo.
La mamma, fin dalla gravidanza, è per il bambino il suo “contenitore”. La mamma contiene il bambino nella pancia durante la gestazione, lo con-tiene tenendolo in braccio quando nasce, contiene il suo pianto, le sue emozioni.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la mamma ha la capacità di recepire ed interpretare i messaggi del suo bambino e di comprendere l’origine delle sue paure, delle sue angosce e delle sue sensazioni fisiche.
Per comprenderci, mi riferisco ad esempio al momento in cui il bambino piange e la madre, quasi magicamente, riconosce il pianto del figlio, sa a cosa è legato e quali sono i bisogni sottostanti. Come sanno le mamme, non è necessario nessuno studio, nessun libro da consultare, ma è una dote che la mamma ha naturalmente. Allo stesso tempo, il bambino sa che può contare su di essa per esprimere i suoi vissuti o disagi, sa che c’è un “contenitore mamma” che si occupa di lui e dei suoi bisogni.
A volte, può capitare che questa competenza nella mamma sia bloccata o limitata. Mi riferisco a quelle situazioni, come ad esempio, una depressione post partum, che interferisce a creare questa sintonia nella coppia mamma-bambino e che merita un supporto esterno per essere a sua volta contenuta.
Ma torniamo al concetto di rêverie, perché finora ho parlato di “contenimento”. Lo spiego con un esempio.
Il bambino piange, la mamma interviene, lo prende in braccio, gli parla e va incontro al suo bisogno, e il bambino si calma.
Cos’è successo in questa semplice e breve sequenza?
Il bambino, tramite il pianto, ha gettato fuori da sé qualcosa di insopportabile per la sua mente. Quando i bambini piangono, e non solo i bambini, esternano un’emozione spiacevole che non possono trattenere dentro di sé.
La mamma, con la sua empatia, sensibilità e disponibilità, lo ha contenuto, cioè accolto, ovvero si è resa disponibile ad aiutare il suo bambino, ad accettare ciò che il bambino le proponeva.
È qui che interviene la capacita di rêverie della mamma.
Essa trasforma questo contenuto doloroso, il pianto, in qualcosa di più tollerabile per il bambino, ovvero, ad esempio abbracciandolo o dandogli il latte, gli mostra che il pianto può passare, che il suo bisogno può essere colmato.
Il bambino allora “apprende” che se prima c’è un bisogno che crea dolore, frustrazione, pianto, dopo questo può passare e trasformarsi in un’esperienza piacevole, rassicurante, di affetto.
Perché ho voluto dare tanta attenzione a questa competenza di rêverie?
Perché è fondamentale per il bambino piccolo vivere esperienze di questo tipo, ovvero è importante che una madre ci sia nel momento in cui il bambino esprime un bisogno e necessita di lei come contenitore di questo bisogno, come colei che fa passare la frustrazione ad esso legata.
Se questo avviene, i bambini crescono sicuri di sé, capaci di gestire e tollerare le proprie frustrazioni, più indipendenti da grandicelli.
Quindi, in sostanza, l’esserci della madre con la mente prima, favorendo una buona dipendenza, aiuta all’autonomia.
Alcune teorie sostengono il contrario. Ad esempio, il lasciarli piangere cosicché si abituano alla frustrazione momentanea e possono fare da soli più facilmente.
Io credo che così la madre non passi al bambino la capacità di elaborare le emozioni e le frustrazioni, ma trasmette il suo non esserci. Il bambino apprende questo.
“Lavorare” con le emozioni è utile farlo lungo tutta la crescita di un bambino, poiché la vita, immancabilmente, gli presenterà diverse occasioni emotive che dovrà essere in grado di affrontare.

IL LINGUAGGIO DEL CORPO NEL BAMBINO

downloadMal di pancia improvvisi, mal di testa inspiegabili, apaticita’ oppure estrema agitazione, disturbi nel sonno, dermatite atopica. Che significato hanno? Come aiutare bambini e genitori a superare questi disagi “psicosomatici”?
Capiamo prima di tutto perché ci sono.
Il bambino difficilmente usa le parole per esprimere le sue emozioni e i suoi conflitti, come invece solitamente fa l’adulto.
Il bambino usa il comportamento ed il corpo.
Mente e corpo sono quindi stettamente collegati, tant’e’ che l’espressione di un vissuto va di pari passo con le tappe di sviluppo. Mi spiego. Per un bambino piccolo il vissuto si puo’ esprimere attraverso la pelle, difatti intorno ai 6 mesi circa di vita potrebbe esserci l’esplosione di una dermatite atopica, magari espressione di un conflitto nella separazione con la figura di attaccamento. Proseguendo, un bambino intorno a 1 anno circa potrebbe esprimere i suoi conflitti mostrando un comportamento estremamente iperattivo. Alla scuola materna, ciò potrebbe trasformarsi nella comparsa di un tic o esprimersi come un dolore somatico, ad esempio un mal di pancia. Alla scuola elementare frequenti sono le lamentele legate alla cefalea.
Quando un sintomo nel corpo non ha nessun correlato eziologico, cioè di causa, con un fattore medico, allora si parla di disturbo psicosomatico.
Il sintomo, in questo caso, è un compromesso tra corpo e mente , una soluzione di ripiego.
Per questo motivo, è molto importante aiutare i bambini a dare un significato al sintomo, tradurlo, usando le parole per comprendere le emozioni. È il lavoro che fa uno psicoterapeuta nel suo studio e, in modo diverso, è anche uno strumento che può utilizzare il genitore a casa per aiutare il bambino a superare i suoi conflitti.
Questo metodo è qualcosa che risale fin dai tempi di Freud, il quale riuscì a trovare il nesso tra certi dolori fisici e fantasie dei suoi pazienti, a parlarne con loro, e assistette così alla scomparsa dei sintomi iniziali.
Perché i bambini prediligono la via espressiva del corpo?
Perché lo loro psiche appare ancora immatura da un punto di vista evolutivo.
È nella relazione con la madre che essa si struttura, attraverso l’accudimento continuo, nel tempo.
È la madre che “presta” al bambino la sua mente, capace di elaborare vissuti e situazioni, e il bambino la fa sua, essendo con la madre in una relazione molto intima dove ciò è possibile.
Per alcuni autori, i disturbi psicosomatici rappresentano la mancata o difficile separazione tra la mamma ed il suo bambino.
Mi spiego. La relazione “intima” o “simbiotica”, prima definita, è un passaggio tipico, una condizione di relazione normale nei bambini piccoli, prima dell’anno, con la loro mamma. È qualcosa di necessario per la crescita del bambino come persona. Poi ci si deve avviare alla separazione e, a volte, ciò puo’ risultare complicato sia per la madre che per il bambino. Il famoso “oggetto transizionale“, ovvero una copertina, un peluche che il bambino porta sempre con se’ o altro ancora, serve proprio per facilitare questo passaggio. Se ciò avviene con difficoltà o non avviene, ecco che il conflitto che il bambino vive si presenta con un disturbo nel corpo.
Cosa può fare un genitore?
Può aiutare un bambino a mettere in parole sentimenti ed emozioni, può giocare molto con lui poiché il gioco gli permette di esternare simbolicamente i suoi vissuti e conflitti e condividerli cosi’ con la mamma o il papà, può disegnare insieme a lui, poiché nel disegno il bambino simbolizza ciò che pensa o prova. Così, tramite questi semplici strumenti, il bambino può iniziare ad esprimere ciò che c’è dentro il suo mondo interno e, insieme ad un genitore attento ed accogliente, capire i suoi conflitti e attenuarli.