Categoria: Psicologia Adulti

QUALE MECCANISMO SPINGE GLI ADOLESCENTI AD ARRIVARE A TANTO E COME UN GENITORE PUO’ INTERVENIRE.

Blue Whale, un fenomeno diventato una moda del momento tra gli adolescenti. Perchè ne sono così attratti? Cosa li spinge ad arrivare a tanto? Cosa può fare un genitore?
Partiamo dalla mente dell’adolescente. Esso si trova in un periodo di sviluppo dove gli è possibile costruire sistemi e teorie e ciò gli permette di sperimentare una fase di idealismo ed onnipotenza del pensiero, a cui la realtà, secondo loro, dovrebbe adattarsi (Piaget). La difficoltà a mentalizzare, la tendenza ad essere impulsivi, lo scarso controllo degli impulsi, la disregolazione affettiva e, a volte, gli elevati livelli di rabbia formano un cocktail che può essere esplosivo.
Quello che tutti si chiedono, ovvero il perchè non si fermano di fronte alle richieste di questo gioco, è spiegato da questi fattori. Loro credono di poter controllare la realtà, le loro azioni, faticano a dare un vero significato a quello che sta succedendo e la parte pulsionale li conduce ad attuare dei gesti gravi.
Questi atti autolesivi, ai quali i ragazzi acconsentono, vengono definiti “velleità suicidarie”. Non sono “solo” dei modi per farsi del male. Ciò sottovaluta il significato implicito. Dal mio punto di vista, possono essere considerati dei veri e propri tentativi di suicidio.
E questi tentativi sono legati ai suicidi conclamati, divenuti attualmente la terza causa di morte per i giovani fra i 15 e i 24 anni (Maggiolini).
Quest’altro argomento apre qualche riflessione. E’ connesso alla capacità di accettare l’idea dell’ineluttabilità della propria futura morte. Ciò costituisce un momento evolutivo della crescita in quanto segnala l’accettazione dei limiti posti dalla realtà della vita, la caduta dell’onnipotenza sopra accennata, una genuina e attiva accettazione della vita attraverso la rappresentazione mentale della possibilità del suo contrario (Pandolfi e Senise).
Quando tutto questo processo si blocca è come se l’adolescente rimanesse ancorato alla sua onnipotenza, ovvero alla capacità di sfidare la morte, di vincere su di essa, come se fosse una sfida e non un qualcosa di naturale. Questo spiega il perchè esso accetti le sfide autolesive proposte dal gioco e, soprattutto, la sfida di sè contro la morte stessa.
C’è un altro punto importante alla base di questa dinamica. Ovvero, il rapporto con il proprio corpo ed il bisogno di attaccarlo e distruggerlo.
Gli adolescenti sono alla prese con l’adattamento e la costruzione della loro identità affettiva, relazionale, psichica e corporea. Lasciare il corpo e la mente del bambino che sono stati per indossare un corpo ed una mente pseudo adulti è un passaggio di crescita delicato. Viene vissuto come una sorta di lutto, accompagnato da sentimenti di malinconia, tristezza, depressione. Gli atti autolesivi, i tentativi di suicidio, la morte stessa possono salvare dalla drammaticità di questo momento. Di nuovo, si tratta di una fantasia magica ed onnipotente.
Detto ciò, il genitore ha un ruolo fondamentale e difficile.
L’osservazione e l’ascolto empatico dei segnali, dei gesti, dei vissuti del proprio figlio non devono mancare. In questo periodo, i comportamenti tipici dell’adolescente, come ad esempio la chiusura verso l’adulto, possono essere facilmente fraintesi, ovvero è complesso attribuire ad essi un significato di normalità e di crescita oppure un significato di malessere e sofferenza. E’ importante non sottovalutare, negare, trascurare i messaggi impliciti sottesi a tali atteggiamenti.
Li si osserva, nel tempo, con attenzione empatica, li si monitora, si cerca di comprenderli, anche insieme all’adolescente per quanto possibile.
Spesso allontanano e rifiutano il genitore. Questo è quello che vogliono far vedere. In fondo, hanno bisogno della presenza, delicata e non intrusiva dell’adulto, hanno bisogno di regole e limiti che a volte chiedono a modo loro. Non gli piace, ma hanno bisogno di essere accompagnati anche alla scoperta del mondo di Internet, attraverso la presenza di un adulto aperto, che cerchi di entrare delicatamente nelle loro fantasie, nei loro vissuti, nella loro psiche per comprenderli e passar loro gli strumenti necessari per potersi proteggere anche da soli dalle minacce che la realtà gli sottopone.

LA LUNGA ATTESA DELLA GRAVIDANZA: QUALI FATTORI POSSONO ESSERE IMPLICATI.

“Questo bambino non vuole proprio arrivare!”: queste sono le parole di Iris, alla ricerca di una gravidanza da circa un anno, ad oggi alle prese con lo sconforto, la rabbia, l’impotenza legate a cio’. Ogni gravidanza è unica. A volte la cicogna arriva subito, altre volte si fa attendere. In questo secondo caso, una donna potrebbe scontrarsi con ansie e preoccupazioni profonde.
In primis, se un bimbo non arriva, una donna potrebbe pensare di non essere una buona madre, capace di dar vita ad una creatura e occuparsi di lei. Questa convinzione potrebbe radicarsi dentro le fantasie inconsce della mente e autoalimentarsi dell’assenza reale del bambino stesso.
Winnicott, illustre pedietra e psicoanalista, parla di una madre “sufficientemente buona” per il suo bambino, ovvero in grado di occuparsi di lui in modo sufficiente. Ma come fa una donna a soddisfare questo standard? Come si crea la stima di sé come madre?
Per rispondere a questa riflessione, dobbiamo fare un passo nella generazione precedente per passare da Iris alla sua mamma. Vi racconto la sua storia. Iris, che oggi ha 36 anni, tempo fa è stata una bambina. È stata accudita dai suoi genitori e, in particolare, dalla nascita e nella primissima infanzia, ha potuto godere delle cure della sua mamma in modo esclusivo. La sua mamma era sempre presente, forse troppo in alcuni momenti. Iris è cresciuta, passando da una tappa di sviluppo all’altra, senza troppe difficoltà, se non quella di sentirsi molto dipendente e, forse, ancora un po’ piccola. Ha sempre conservato dentro di sé una parte infantile molto accentuata. Anche da adulta, ad esempio, non ha mai goduto di una reale indipendenza né lavorativa né affettiva. Ha sempre sentito dentro di sé il forte bisogno di un altro accanto, di qualcuno che si prendesse cura di lei, che la amasse in modo esclusivo. Ripetendo, in tal modo, l’accudimento materno ricevuto. Ha avuto fortuna in questo, poiché ha trovato una persona che si incastrava perfettamente con queste sue esigenze. La difficoltà è arrivata al momento della decisione di diventare lei stessa madre. Intrappolata tra il desiderio di esserlo e la paura, inconscia, di diventarlo, ha dato vita ad un corto circuito emotivo interno, che ha bloccato la naturalezza della creazione. Mettersi nei panni di “madre”, assumere una nuova identità, più adulta, indipendente, affettivamente matura, si è scontrato con i suoi bisogni più infantili di figlia, con il desiderio inconscio di restare piccola, affettivamente dipendente dall’altro. Il prezzo da pagare per Iris era troppo, ovvero quello di perdere i privilegi dell’accudimento, per offrire lei stessa accudimento all’altro, al proprio bambino. Questo pensiero, che origina nella sua mente, ha bloccato il processo della gravidanza, nel suo corpo, per diverso tempo. Solo la consapevolezza di questo attrito interno di pensieri e vissuti ha fatto sì che si sbloccasse il nodo che si era creato.
Questo è solo un esempio di quelle che possono essere le ansie e le preoccupazioni di una futura mamma, influenti sul concepimento.

MAMMA E PAPA’ SI SEPARANO: QUANDO E COME DIRLO AL BAMBINO.

La domanda che questa mamma si porta dietro ormai da tempo è: “lo dico o non lo dico al mio bambino che io e il suo papà ci stiamo separando?!”.
A quante di voi è già capitato di chiedersi questo?
La preoccupazione di questa mamma era di ferire cio’ al suo bambino, di dargli un dolore grosso inelaborabile, di distruggergli il mondo incantato dell’infanzia nel quale viveva.
Questo bambino aveva circa 7 anni e la sua mamma ed il suo papà discutevano della separazione da circa un anno.
Il papà diceva che non erano presenti liti in casa, discussioni dai toni accesi, musi lunghi o qualche altro atteggiamento che potesse far pensare ad una mamma e ad un papà che non vanno più d’accordo.
Questo papà avrebbe voluto tardare il momento di comunicare al bambino la decisione di separarsi.
La mamma aveva invece il dubbio che il bambino avesse capito o, quantomeno, intuito qualcosa a riguardo.
Allora, come fare in questi casi? Quando va comunicata la scelta? Come va comunicata? I bambini capiscono lo stesso?
Partiamo dai bambini.
Io credo che, a modo loro, ai bambini arrivino dei messaggi, anche non espliciti, legati al fatto che in casa, tra mamma e papà, c’è qualcosa che non va.
Nonostante l’assenza di chiare liti o il clima di apperente serenità che i genitori cercano di mantenere, l’atmosfera emotiva e relazionale anche inconscia presente tra i due genitori non può eludere la diversità.
Ovvero, la relazione nella coppia cambia. Affettivamente non sono piu’ presenti i sentimenti tipici della relazione coniugale ma ne subentrano altri che dipingono una relazione a volte amicale, a volte tra estranei, a volte tra due guerrieri che faticano a condividere il minimo indispensabile.
Tutto ciò, nonostante le varie strategie adottate per proteggere i propri figli, ai bambini arriva dritto al cuore.
A volte, loro non chiedono, altre si’.
Quando non chiedono, non vuol dire che non abbiano capito, che non abbiano interesse a comprendere cosa sta succedendo.
Anzi. Spesso non chiedono perché vorrebbero sapere, ma hanno paura delle risposte, perché non vogliono aprire il vaso di Pandora finora rimasto ben chiuso, perché non vogliono sentirsi poi responsabili di un cambiamento distruttivo dell’ideale di famiglia che ogni bambino ha.
Tutto ciò li spaventa molto.
E spaventa anche i genitori che sono spesso, ma non sempre, consapevoli che la separazione tra loro fa cadere l’illusione di una mamma e di un papà che staranno insieme per sempre, cosa che tutti i bambini vorrebbero.
Ho scritto “non sempre consapevoli” perché, invece, a volte capita di pensare che i bambini sono in grado di superare tutto, che una separazione coniugale non è poi così un trauma, che mamma e papà ci saranno in ugual modo e quindi non cambia nulla.
Penso che per un bambino la separazione sia sempre un cambiamento della routine familiare che mina la stabilità e quindi il senso di sicurezza e fiducia di sé e negli altri.
Detto questo, è importante comunicare al proprio bambino cosa sta succedendo.
Anche il non sapere lascia spazio alle fantasie e un bambino, non capendo cosa sta succedendo, può pensare che succeda davvero di tutto, può avere delle fantasie distruttive, delle fantasie di perdita, di solitudine, di angoscia.
Il sapere, invece, rassicura, dà il senso di un maggior controllo.
Credo che la scelta di comunicare al bambino la decisione di separarsi debba essere fatta quando ormai è chiaro per entrambi i genitori di proseguire in questo senso. Sembra scontato ma, a volte, non è proprio così, ovvero c’è un chiaro periodo di crisi, la minaccia di separarsi, ma poi tutto rientra.
Una volta presente questa consapevolezza, in base alla comprensione emotiva e cognitiva del proprio bambino, sarebbe meglio comunicare la scelta in modo semplice e, soprattutto, veritiero.
L’età del bambino è una variabile presente rispetto alle scelta delle parole da utilizzare.
Il contenuto della comunicazione varia in base alla storia della famiglia.
In ogni caso, è importante fornire un perché, una motivazione che, in qualche modo, giustifica la scelta e toglie il bambino dal senso di colpa e responsabilità.
È importante comunicare anche i sentimenti, ovvero come si sentono la mamma ed il papà, come può sentirsi lui.
È importante anche dire cosa succederà, come potrà sentirsi, quali saranno i cambiamenti, dando spazio alle preoccupazioni del bambino, ai dubbi, alle paure, alla rabbia e rassicurandolo sulla presenza costante dei suoi genitori per lui.
La separazione è della coppia coniugale, non della coppia genitoriale. E questo messaggio deve arrivare al bambino!

QUANDO SI PARLA MALE DEGLI ALTRI: QUALE MECCANISMO STA DIETRO A TALE COMPORTAMENTO?

A volte, ci si ritrova a parlar male delle altre persone.
Lo si fa tra amiche, tra colleghe, con il proprio compagno, e lo si fa anche dallo psicologo, quando quello sarebbe il luogo dove parlare di sé, dei propri pensieri e delle proprie emozioni.
Ma perché succede così? Quale meccanismo c’è alla base?
Spesso si tratta di un meccanismo di difesa per il quale attraverso l’altro si parla di sé.
Ovvero, a volte succede che è difficile riconoscere degli aspetti di sé e allora li si vede nell’altro e li si critica.
Ma la critica all’altra persona diventa, inconsapevolmente, una critica a sé.
Di solito, sono degli aspetti difficili, dolorosi, delle questioni irrisolte, un aspetto del carattere o un modo di pensare che non piace.
Spesso, chi adotta questo meccanismo, non si rende comunque conto di questa dinamica.
Questi aspetti, difficili da tollerare se pensati su di sé, si crede facciano solo parte dell’altro.
Ricordo una mamma critica su tutto, alla quale non andava bene nulla: era arrabbiata con la babysitter, non condivideva ciò che faceva la suocera, ogni pensiero delle amiche era oggetto di giudizio, suo marito non si comportava come lei desiderava, dei figli andava bene poco e niente ed ogni incontro con lei diventava un processo di accusa contro gli altri.
Nella sua storia personale, si ritrovavano sorprendentemente aspetti simili, se non identici, alle storie che lei raccontava sugli altri.
I miei tentativi di mostrarle queste somiglianze cadevano nel nulla.
Per lei, inizialmente, era intollerabile il pensiero di rispecchiarsi in queste persone che lei tanto giudicava.
Con il passare del tempo, questo rispecchiarsi diventava più accettabile.
Questa mamma iniziava a vedersi negli altri, a rispecchiarsi in loro, a capire che certe cose appartenevano a lei e non a loro.
È stato per lei un passaggio di crescita difficile.
Tuttavia, le ha permesso di vivere più serenamente.
Immaginate che davvero nulla andava per il verso giusto prima. Credete sia facile vivere così? Questa mamma, all’interno di questo vortice di giudizio, si sentiva davvero molto sola.
Una volta compreso questo meccanismo di difesa, che le era stato utile per proteggersi dal vedersi dentro, ma che non le serve più, ha iniziato ad accettarsi per quello che era, nei suoi aspetti più facili da ammettere ma anche in quelli più difficili.
Accettarsi voleva dire per lei apprezzarzi, credere in sé, credere di valere, sapere di valere, riconoscersi delle cose positive.
Vi lascio immaginare che volo pindarico ha fatto la sua autostima.
Eh sì, perché dietro le numerose critiche non pensate ci sia stato un bassissimo valore di sé? ! Ebbene sì.

PERCHE’ I BAMBINI NON RISPETTANO LE REGOLE?

“Non riesco a fargli rispettare una regola, che sia una!!! Fa sempre quello che vuole, se dico qualcosa non ascolta mai”.
Quante volte vi siete ritrovate nei panni di questa mamma?
Lei sta parlando del suo ometto di 11 anni, il quale si trova a metà tra l’essere un bambino da una parte e il diventare un futuro adolescente dall’altra.
Cosa c’è dietro questa faccenda delle regole?! E dietro la difficoltà a rispettarle?!
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo fare un passo indietro, nella storia d’infanzia di questo undicenne, poiché la mamma lo descrive come un bambino che fin da piccolo faticava ad ascoltare l’adulto di riferimento, sia a casa che a scuola.
Per spiegarvi cosa può essere successo, mi vengono in mente le teorie di Winnicott, il quale sottolineo’ un rapporto diretto tra l’ “antisocialita’” ed esperienze precoci di “perdita” o deprivazione affettiva. Ovvero, se l’esperienza di perdita è traumatica ed avviene quando il bambino è molto piccolo, le tendenze a diventare “antisociali” saranno più marcate.
Con “tendenze antisociali” si puo’ intendere, in modo più o meno evidente, il mancato rispetto delle regole.
Mentre con il termine “deprivazione” si intende un’esperienza più o meno intensa di carenza affettiva. Entambe le definizioni lasciano grande spazio all’interpretazione.
I bambini, da piccoli, hanno bisogno di esprimere la propria rabbia nei confronti della figura materna. Ciò si manifesta nel gioco del bambino, oppure quando i bambini morsicano, anche durante l’allattamento, o in altre circostanze ancora.
È la risposta della mamma a questa rabbia, tipica, che permetterà al bambino di capire come fare sia con la rabbia che con le regole.
Ovvero, se la mamma tollera questa rabbia nei suoi confronti, senza lasciarsi sommergere, reagire allo stesso modo, vendicarsi, allora andrà tutto bene. Il bambino sentirà la presenza della madre, che ad esempio gioca con lui nonostante la rabbia, e sentirà di esistere, perché esiste la relazione con la mamma, che non viene distrutta dalla rabbia.
Se invece questo passaggio è difficile, il bambino penserà di dover nascondere questa parte arrabbiata di sé, per dargli poi vita in un secondo momento. In assenza della mamma nel gioco, che ad esempio si ritira perche’ non tollera la rabbia, il bambino sentira’ una mamma assente, un vuoto affettivo. Sentira’ solo rabbia, che rimane non contenuta dalla mamma stessa perche’ assente, e solo con la rabbia si sentira’ vivo. L’assenza o l’allontanamento della mamma inoltre, farà pensare al bambino di essere lui stesso la causa del distacco, perché ha provato rabbia. Si sentirà poi in colpa.
Tornando alla mamma di cui sopra, ecco allora spiegato questo problema con le regole.
La rabbia del suo bambino quindi si esprime sottoforma di non rispetto delle regole, di aggressivita’, di antisocialita’, perché quando era piccolo lei ricorda di aver avuto paura di questa rabbia, di essersi preoccupata di non saperla gestire.
La mamma racconta di averlo lasciato solo con queste emozioni forti, di non averlo contenuto abbastanza, di aver messo pochi limiti, perché vedeva che lui non reagiva come lei si aspettava e allora ricorda che per lei è stato più facile gettare la spugna.
In questi casi, può essere davvero una sfida fare i conti con un bambino molto molto arrabbiato.
Gettare la spugna, pensiero legittimo per questa mamma, alimenta la rabbia e la sensazione di onnipotenza del bambino.
È importante che ci sia presente l’altro genitore, che aiuti a colmare questo vuoto, che prenda le redini della situazione con il bambino e la sua rabbia, che aiuti l’altro genitore a riacquistare forza e sicurezza di sé.
Questa mamma era fortunata. Aveva di fianco a sé un papà molto attento e presente che è riuscito ad aiutarla in questa missione.

NELLA MENTE DEI NEO GENITORI

download (1)Quando una coppia sceglie di allargare la famiglia e avere un bambino, in genere, è una decisione presa con entusiamo, che alimenta gioia e serenità.
Quando il neonato arriva l’atmosfera elettrizzante persiste ma può accompagnarsi, a volte, alla presenza di sentimenti ambivalenti.
Che cosa di intende con questo termine?
In particolare per la donna, già durante la gravidanza, possono emergere sentimenti “negativi” verso il bambino o verso l’essere madre.
Si possono tradurre ad esempio in pensieri come “non sarò una buona mamma”, “e se piange molto cosa faccio?!”, “dovrò fare tutto da sola?!”, “non sono sicura di aver preso la decisione giusta”, “forse dovevamo aspettare ancora un po’”.
Sono pensieri e sentimenti che possono descrivere una sorta di “rifiuto” della gestazione stessa, del bebè in arrivo e della nascita della donna come madre.
Sono pensieri e sentimenti tipici, nel senso che molte mamme li hanno pensati e provati e sanno che passano una volta riassestato l’equilibrio della nuova famiglia che si è formata.
Allo stesso modo, anche il padre può provare le stesse sensazioni. Ci sono degli studi che affermano come un uomo realizzi maggiormente l’idea di essere diventato padre appena vede il suo bambino, al momento della nascita.
Non tutte le persone sono uguali, per cui ritengo non si possa fare un discorso valido per tutti. Ci sono anche molti papà che hanno una sensibilità acuta e sono molto in sintonia con la madre e con il bambino già durante l’attesa.
In ogni caso, da dove arrivano questi vissuti?
Dal passato del genitore. Il passato di ognuno ha sempre un’influenza di qualche tipo sul presente, sulle relazioni. Il diventare genitori è una trasformazione psichica che muove molti aspetti del passato, ovvero, a livello inconscio la regressione psichica permette ai genitori di sentirsi bambini, come lo erano un tempo, di identificarsi e mettersi nei panni dei propri genitori, per capire che tipo di genitori vogliono essere loro.
Insomma, una serie di movimenti, non proprio semplici, che giustificano il periodo sensibile e delicato che un uomo e una donna attraversano.
Per tali motivi, è molto importante che tra la coppia ci sia un equilibrio solido, già prima dell’arrivo di un bebè e siano risolti, in parte, i conflitti emotivi che il passato di ognuno porta nel presente nella relazione di coppia.
“Sei come mia madre!”: prendo la frase come esempio per dire di come le relazioni che una persona intrattiene nel passato con i propri genitori, si ripropongano similmente con il proprio partner nell’attuale.
Nello sconvolgimento dei ritmi legati all’arrivo del bebè, la parola chiave per sostenere l’equilibrio di una coppia è “capirsi “.
L’incomprensione e il non sentirsi capiti sono spesso alla base delle liti nelle coppie. Esprimono due cose differenti, ma strettamente interconnesse, poiché la prima sembra più affine alla concretezza, all’oggettivita’ (non c’è stata effettivamente comprensione), mentre la seconda ad un vissuto, ad un qualcosa di soggettivo (sento che non mi capisce).
Allora come allenare questa capacità presente in ognuno di noi?
Ci vuole una buona capacità autoriflessiva, ovvero l’essere consapevoli di come funzioniamo nelle relazioni con l’altro. La si puo’ allenare o sviluppare guardandoci da lontano, per poterci osservare e capire piu’ attentamente, nel meglio di noi ma anche nei nostri punti critici.
Ci vuole anche una buona empatia e “teoria della mente”, ovvero la capacità di comprendere che cosa succede nella mente dell’altro, intuendo i suoi pensieri e le sue emozioni. La si può allenare o sviluppare cercando di mettersi nei panni dell’altra persona, chiedendosi cosa pensa e prova in quella determinata situazione.
Questi piccoli allenamenti, a volte non semplici per qualcuno, possono salvare la coppia per quanto riguarda la questione del capirsi, soprattutto in un momento critico come il diventare genitori.

PERCHE’ SONO COSI’ DISTRATTO?

                                                           

 ansia…”dimentico sempre il nome di una persona quando si presenta, ricordo spesso a me stesso quello che devo fare in giornata , a volte sono così distratto che sbaglio la strada che dovrei percorrere”…

La memoria è un processo cognitivo strutturato e complesso.  L’incapacità di ricordare può essere indicativa di una mente disordinata o piena di pensieri e ansie.

A volte capita che la distrazione crei una reazione a catena, per cui se ci si crede distratti allora si è distratti davvero e le cose non si ricordano, come in una profezia che si autoavvera.

Pertanto, il suggerimento che la vostra mente vi fa, legato alla convinzione di non riuscire a ricordare, diventa una convinzione onnipotente che induce le vostre aspettative a diventare realtà.

La conseguenza: non si ricorda davvero!

ansia boSe, oltre ai pensieri, ci sono di mezzo le ansie, le cose si complicano. La mente funziona meglio quando lo stato emotivo di una persona è sereno e tranquillo.

Se ci sono in  gioco emozioni forti, come ad esempio l’ansia o qualsiasi altro vissuto ingombrante, meglio fermarsi nelle proprie attività di pensiero e cognitive,  per lasciare che l’intensità dell’emozione si abbassi.

Penso ai bambini o ai ragazzi in ansia di fronte ad un compito o un’interrogazione, che di certo sbagliano o non riescono ad affrontare se prevale una componente emotiva invalidante.

Allora, come fare?

Ogni persona, bambino o adulto che sia, vive pensieri ed emozioni a modo suo, per cui non esiste una regola o una soluzione magica valida per tutti.

In generale,  si può riflettere sulle proprie capacità cognitive di memoria per capire come raggirare anche i pensieri che alimentano il non-ricordo: “…se so già che dimenticherò,  allora faccio un promemoria, un appunto, chiedo a qualcuno di ricordare al posto mio…”.

In secondo luogo, parlare della propria ansia o delle emozioni che fanno sentire bloccati nella memoria, poiché parlare è comprendere, capire, realizzare come gestire gli tsunami emotivi: “…forse mi sale l’ansia per l’interrogazione perché i compagni mi guardano, allora dimentico tutto… Forse può aiutarmi capire che non faccio una brutta figura anche se sbaglio,  che i miei amici credono in me anche se mi va male… E forse, di questo, devo proprio parlarne con loro, giusto per averne una conferma che mi aiuta….”.