Categoria: Psicologia Bambini

Cosa mettere nella valigia per poter iniziare attrezzati il nuovo anno scolastico alla materna?

È tempo di vacanza, di pausa, di relax, ed è fondamentale potersi godere questo spazio vuoto, per potersi ricaricare e permettere ai bambini di vivere un tempo di leggerezza.
La scuola poi ricomincia a settembre, quindi bisogna comunque essere “attrezzati” per un buon inizio.
La scuola dell’infanzia può essere immaginata da un genitore come il luogo del gioco, delle prime amicizie e del divertimento. Ed è in parte così.
A volte, questo immaginario lascia intendere il primo ingresso in struttura come qualcosa di estremamente semplice, come il luogo dove un bambino può stare, senza troppe fatiche.
Si spera sia così. Tuttavia, se ci mettiamo nei panni dei nostri bambini, tale passaggio richiede delle competenze da non sottovalutare.
In primis, sul piano della relazione con il genitore.
L’ingresso a scuola può rappresentare, per alcuni, il primo distacco dalla mamma o dal papà in un contesto non familiare, da conoscere, con delle figure nuove, estranee alla famiglia allargata, con molti altri bambini.
Sul piano relazionale ed affettivo, le competenze che un bambino ha bisogno per affrontare tutto questo sono prima di tutto legate alla tolleranza della distanza dal genitore poi, in secondo luogo, le competenze per approcciarsi a nuove relazioni, con adulti e altri pari.
È come quando un adulto cambia lavoro e viene inserito in un contesto nuovo e non conosce nessuno, capi o colleghi.
Le domande che un genitore può chiedersi per poter capire se il suo bambino si sente pronto a tale passaggio possono essere le seguenti: il mio bambino sa stare senza di me? Per quanto tempo? Trova consolazione in altre figure adulte? O con se stesso? Sa chiedere aiuto ad altri? Conosce i bambini? È in grado di gestire una relazione tra pari? Con quanti bambini sa stare in gruppo? Conosce le regole della condivisone? O quelle del rispetto reciproco?
Le domande possono essere tante altre ancora.
Un secondo punto che merita attenzione è l’indipendenza, intesa non solo, come detto prima, stare senza il genitore, ma anche il saper fare.
Immaginate il vostro bambino all’interno della struttura, una volta consolidata la prima competenza sociale, sopra descritta.
Cosa è importante che sappia fare in termini di autonomie? Sa mangiare da solo? È in grado di occuparsi della sua igiene personale da solo? Sa cambiarsi, alcuni indumenti, da solo?
La presenza dell’insegnante è puntuale e necessaria nelle prime fasi e in caso di bisogno, come è altrettanto importante che un bambino sappia gestire alcuni “saper fare” in autonomia.
Un terzo punto potrebbe essere l’aspetto cognitivo.
Le scuole dell’infanzia sono improntate primariamente al gioco, quindi con il termine “cognitivo” non si intende il saper disegnare bene, scrivere magari il proprio nome, o essere in grado di svolgere un’attività, un lavoretto, perfettamente.
Queste sono cose che si apprendono nel tempo, in base al proprio sviluppo o all’esercizio e al consolidamento dell’apprendimento.
Piuttosto, appare importante che un bambino possa ad esempio esprimersi. Quindi, utilizzare un linguaggio comprensibile e comunicativo, che possa permettergli di vivere bene le relazioni con l’altro.
Torniamo al primo punto, le competenze relazionali, la base di tutte le altre.
In generale, sul piano cognitivo, ci si può chiedere se il proprio bambino sia “capace” di stare in un contesto nuovo, capace di accogliere i vari stimoli che in esso sono presenti su più fronti e se, nelle sue capacità, sia un bambino sereno, che sta bene, felice di andare tutte le mattine a sperimentarsi in nuove esperienze di crescita.

 

Un salto nel buio?

 

 

 

 

 

 

I bambini sono prossimi a rientrare a scuola e le maestre, dopo così tanto tempo, finalmente sono pronte ad accoglierli nuovamente, come i genitori a lasciarli nelle loro braccia.
Ma come se lo immaginano questo rientro i bambini?
Quali i pensieri e quali le emozioni?
A cosa andranno incontro?

 

 

Lo scenario è il seguente.
I nostri cuccioli erano abituati ad una routine, quella quotidiana, che prevedeva andare a scuola, salutare i genitori, lasciarli per un periodo più o meno lungo, rivederli e tornare a casa con loro per concludere la giornata.
Arriva i lockdown.
Genitori e bambini si ritrovano a casa. Inizialmente solo a casa, h 24, tutti assieme.
Inizia qualche riapertura e qualche genitore rientra al lavoro, affidando il bambino, per un tempo più o meno lungo, ad una figura di accudimento specifica.
In altre famiglie, invece, prosegue una sorta di lockdown, inteso come lo stare assieme, a volte ancora h24, ma con la possibilità di uscire da casa.

Nella mente dei bambini, tutto ciò ha significato una rivoluzione dal punto di vista degli affetti e delle relazioni, ovvero un passaggio da una separatezza affettiva dal caregiver, elaborata, appresa e funzionale, ad una vicinanza quasi simbiotica, tipica dei bebè.
E’ anche per questo motivo che si vedono oggi molti bambini regrediti su diversi piani, a livello di alcuni comportamenti e nei passaggi di crescita.
Il lockdown è stata, nella mente del bambino, una sorta di lunga vacanza.
I genitori, e anche le maestre, sanno che bene che, dopo una vacanza, una pausa, più o meno lunga, su alcune dinamiche, su alcune conquiste di crescita, spesso bisogna un pò tornare indietro.
Il mio pensiero, in questi casi, è che il tornare indietro serve per andare avanti, magari anche con qualche qualità aggiuntiva, e non è mai una regressione agli inizi.
Questi sono quindi i nostri bambini di oggi.
In questi giorni devono affron

 

tare l’esperienza del ritorno a scuola.
Per alcuni di essi è un tornare, per altri è una nuova esperienza.
Ogni scuola ha le sue regole per quanto riguarda la situazione Covid-19.
Alcune insegnanti porteranno la mascherina, altre la visiera.
In alcune scuole, l’accesso del genitore è limitato al triage o al parco esterno, in altre sarà concesso l’accompagnamento in classe, per un breve tempo.
I bambini cosa pensano a riguardo?!
Mettendoci un poco nei loro panni, possiamo forse riflettere su alcune questioni, da tenere a mente, affinché questo rientro possa essere più protettivo possibile per loro, e non un salto nel vuoto, sia nel caso in cui sia un rientro, sia, e soprattutto, nel caso in cui sia un nuovo ingresso.

 

In primis la mascherina e la visiera.
E’ vero che i bambini sono abituati a vedere gli adulti, e anche altri pari, con questi aggeggi, oramai conosciuti e non troppo spaventanti.
E’ altrettanto vero però che una mamma o un papà lasceranno il loro bambino, magari di 3 anni, affidato alla maestra, per loro una sconosciuta, che indossa tale protezione.
Quali fantasie avranno a riguardo?!
Nel caso della mascherina, i bambini non vedranno totalmente il volto di questa nuova figura di accudimento, quindi perderanno una gran parte del non verbale, delle sue espressioni emotive, di tutto quello che può comunicare attraverso metà volto.
Un’indicazione per le maestre per rendere più confortevole un primo distacco ed il soggiorno intero del bambino a scuola, potrebbe essere quella di compensare quest’assenza attraverso le parole, verbalizzando le proprie emozioni, comunicando al bambino con gli occhi, che sono un ottimo canale di espressione emotiva, piuttosto che con l’intero corpo.
I genitori possono rendere quindi attento il bambino a tali indicatori, aiutandolo così a conoscere il nuovo adulto di riferimento e a fidarsi di lui.

 

Conoscere l’ambiente è altrettanto importante.
I bambini sono più sicuri se hanno una minima idea del luogo in cui verranno portati.
Se questo luogo è poi visitato con un genitore, facilmente diventa un luogo affettivo sicuro e non un posto che può incutere paure.

E’ fondamentale curare i momenti di distacco, osservando come il bambino si comporta, più che quello che dice.
Osservando le sue emozioni, l’espressione di esse attraverso il corpo, cercando di capire il momento in cui è davvero a suo agio, ovvero quello giusto per poter salutare il genitore e passare nelle braccia della maestra.

 

Se il bambino non fosse pronto, lo si può aiutare con quegli oggetti che hanno proprio la funzione di passaggio, gli oggetti tradizionali.
Una copertina, un peluche, un qualsiasi oggetto che il bambino porta con sé sempre e che tranquillizza, rassicura, rende felici.
Può anche essere un oggetto che appartiene alla mamma o al papà, un braccialetto ad esempio, o una foto, un qualcosa che funga da ricordo del genitore e che colmi il vuoto che il bambino sente in sua assenza.

 

Quando il genitore torna a scuola, a fine giornata, oltre a recuperare il tempo mancato e quindi dedicargli dei momenti esclusivi, in assenza di fratelli o altri adulti, il cellulare o cose da sbrigare, può fare un ottimo lavoro di elaborazione della giornata con lui.
Può chiedere al bambino com’è andata la giornata, cos’ha fatto, ma soprattutto come si è sentito.
Può accoglierlo nelle sue emozioni, semplicemente stando in ascolto, aiutandolo a capirle, contestualizzandole, fornendo rassicurazione dove necessaria.

I bambini potranno manifestare delle piccoli crisi.
E’ del tutto normale. Direi che è il loro modo, sano, di elaborare questo distacco, di buttar fuori dei sentimenti sgradevoli, per poter andare avanti.
Qualche bambino potrà perdere dei comportamenti di crescita già acquisiti e tornare indietro nelle tappe di sviluppo, ad esempio chiedendo di dormire nel lettone.
Io credo sia importante poter assecondare le loro richieste, intese come bisogni specifici per questa fase, senza il timore di tornare troppo indietro o di sbagliare.
La cosa fondamentale per un bambino è esserci, in ascolto delle sue emozioni, assecondando, per quanto possibile, i suoi bisogni.

 

Fase 1, fase 2, fase 3…e le regressioni nei bambini?!

Molti sono i pensieri riguardo al fatto che in tutta questa faccenda del Covid i bambini siano quelli dimenticati, dalle persone, dai decreti.
Mettiamoci quindi nei loro panni.
I diversi studi scientifici riguardo la loro salute psichica parlano di alcuni effetti di queste varie fasi sui loro comportamenti.
Si parla ad esempio di disturbi del comportamento, difficoltà nella regolazione delle emozioni o degli stati fisiologici, disregolazione del comportamento alimentare, regressione.
Vorrei fermarmi proprio su quest’ultimo punto, perché non è da poco, a parer mio.
Cosa significa questa parola?
Indica il fatto che se un bambino, ad un certo punto della sua crescita, è arrivato a raggiungere e completare alcune tappe di sviluppo, per qualche determinato fattore, sembra tornare indietro rispetto a questa crescita.
Ad esempio, un bambino che può aver raggiunto il controllo sfinterico, per cui abbandona l’uso del pannolino, a causa di un forte stress, può tornare a chiedere, più o meno esplicitamente, l’uso di questo oggetto vissuto come qualcosa di rassicurante.
Tornando alla situazione Covid, quale può essere il legame con la regressione?!
Come mamma e come psicoterapeuta dell’età evolutiva posso raccontare quello che ho vissuto e visto.
I bambini, di qualsiasi età, sono stati catapultati, e direi che la metafora è piuttosto calzante, dentro una realtà diversa.
Forse già conosciuta ma comunque diversa dalla precedente routine in cui erano immersi.
Da un giorno all’altro, si sono visti i genitori passare dall’andare al lavoro allo stare a casa.
È venuta a mancare tutta la routine quotidiana del distacco e del ritrovarsi.
I genitori, forse uno o entrambi, erano lì, 24/24h a loro disposizione.
Questo nella fase 1.
I bambini ci sono andati a nozze e, perché no, anche qualche genitore.
La regressione, dal mio punto di vista, ha cominciato a mostrare i suoi effetti già qui.
La relazione h24 con il genitore è tipica dei bebe’, i quali possono godere di questo accudimento esclusivo indispensabile per una buona crescita.
I bambini, catapultati dentro questa situazione già sperimentata, è come se avessero potuto riattivare le memorie di quei tempi oramai passati.
Ed ecco che alcuni comportamenti più tipici di una fase precedente hanno cominciato a rispuntare fuori.
C’è chi è tornato a dormire nel lettone, c’è chi è tornato a farsi imboccare, c’è chi non è più riuscito a stare separato dalla mamma o dal papà, e così via.
In tal modo, i bambini regredendo tornano a beneficiare di un accudimento primario.
Loro ci sguazzano ma, forse, qualche genitore un po’ meno.
Arriva la fase 2.
Alcuni genitori rientrano al lavoro.
Chi in modo più graduale, chi da un giorno all’altro.
Prendiamo questi ultimi.
I bambini di questi genitori si trovano nuovamente catapultati dentro un’altra realtà, che sicuramente già conoscono e ricordano, ma il tutto avviene troppo velocemente, senza avere il tempo di elaborare il passaggio e comprenderne il perché.
I bambini si ritrovano affidati a nonni o tate, i genitori dimezzano, chi più chi meno, il tempo per loro.
Si sentono abbandonati, non comprendono i vari cambiamenti, faticano ad adattarsi.
Cos’è meglio di un’altra regressione per poter chiedere implicitamente ad un genitore l’accudimento perso?!
Ecco che allora ancora alcuni di loro manifestano altri tipi di comportamenti regressivi, oppure c’è chi esplode di rabbia o di qualsiasi altra emozione, indispensabile per chiedere aiuto.
Quanti di voi hanno notato atteggiamenti simili nei propri bambini?!
In alcuni casi, quando le regole vengono dall’alto, non si può fare nulla, purtroppo.
In altri casi, quando la situazione è maggiormente gestibile, penso sia fondamentale seguire alcuni piccoli ma importanti passi:
1. Preparare i bambini al cambiamento. A qualsiasi età, spiegare cosa sta succedendo e cosa accadrà. Questo li prepara e li rassicura, perché permette loro un maggior controllo della situazione, potendola conoscere di più.
2. Predisporre dei cambiamenti graduali, distanziati nel tempo, tendendo conto delle reazioni dei bambini ad ogni passaggio che si aggiunge.
3. Osservarli. Nelle loro reazioni emotive, nei loro comportamenti, nei giochi e nei disegni, in quello che dicono. I bambini, in base all’età, utilizzano diversi modi per esprimersi. Ognuno di loro è una fonte preziosa di conoscenza sul loro mondo interno.
4. Recuperare. Ciò che si toglie, si rida’. Se al bambino viene tolto del tempo condiviso con il genitore è importante poterglielo restituire in qualche modo.
5. Accettare la regressione. Spesso i genitori ne sono spaventati, perché la regressione trasmette il senso di qualcosa che non sta andando per il verso giusto, di qualcosa di interrotto, di irrecuperabile, di perso. Può essere così. Ma è una cosa momentanea. Come un bambino torna indietro, andrà avanti. Per cui è utile accettare ciò che il bambino ha bisogno in quel momento, ad esempio tornare a dormire nel lettone, per poi ripristinare la normalità perduta appena sarà pronto. È come andare sull’altalena: più lo slancio indietro è forte, più lo sarà anche quello in avanti.

BAMBINI AL POSTO DEI GENITORI E VICEVERSA: QUALI CONSEGUENZE.

Laura è una bambina di 5 anni, va alla scuola materna, gioca con i suoi amichetti, si diverte. È socievole, simpatica, leader nel gruppo. Con le maestre della scuola fa un po’ fatica a rispettare le regole e lo stesso atteggiamento è fortemente presente con la sua mamma e il suo papà.
Laura li sgrida, alza la voce con loro, decide, se non comanda, sulle diverse cose quotidiane.
I genitori si adeguano a tutto ciò che lei dice, per cui decide lei quando alzarsi dal letto, cosa mangiare, che indumenti indossare, quanta tv guardare, cosa guardare, quanto giocare, cosa e come dire le cose agli altri, insomma, decide tutto lei.
Immaginate quanto possa essere difficile per una mamma ed un papà “domare” tutti questi comportamenti per farsi ascoltare e rispettare.
I bambini hanno spesso a che fare con l’onnipotenza. Ad esempio, intorno ai 2 anni hanno bisogno di sfidare l’adulto, opporsi a tutto ciò che esso dice, per sentirsi diversi, separati e quindi una piccola personcina in crescita. Questo avviene quando i bambini iniziano a dire di no per tutto, avete in mente? È un passaggio di crescita tipico di questo periodo, che permette loro di separarsi psichicamente dalla figura di accudimento primaria, restando comunque in rapporto con essa. In questo periodo, è fondamentale che i genitori restino fermi sulle loro posizioni.
Per la piccola Laura, questa fase ha preso una piega diversa.
Per prima cosa, non c’erano una mamma ed un papà fermi sulle loro idee e sui loro pensieri. Forse per il timore di dire troppi “no” e quindi di sentirsi separati e lontani affettivamente dalla loro bambina, e anche perché questi genitori conservavano dentro di loro un piccolo nucleo di un “Sé” ancora piccolo e ancora molto legato ai rispettivi genitori. Detto in parole più semplici, si sentivano ancora piccoli.
In secondo luogo, questo “via libero” ha consentito quella che si chiama “inversione di ruoli”, ovvero il mantenimento di una relazione dove sono presenti una mamma ed un papà ancora bisognosi di cure, attenzioni, accudimento, e una bambina che ha potuto giocare con la sua onnipotenza, non avendo limiti.
Laura, essendo poi molto sensibile, non solo ha assunto il ruolo genitoriale per poter decidere, comandare, dirigere la vita quotidiana della famiglia ma, sentendo la sua mamma ed il suo papà molto fragili e bisognosi si è assunta anche il ruolo della figura accudente, facendo le coccole a loro al posto che riceverle, decidendo per loro al posto che lasciarsi gestire, organizzando la quotidianità proprio come dovrebbero fare una mamma ed un papà.
Quindi…quanto è importante vedere da adulti i propri bisogni irrisolti, ancora presenti per diversi motivi, poterci fare i conti, per far sì che non ricadano in modo turbolento sui propri bambini.

MAMMA E PAPA’ SI SEPARANO: QUANDO E COME DIRLO AL BAMBINO.

La domanda che questa mamma si porta dietro ormai da tempo è: “lo dico o non lo dico al mio bambino che io e il suo papà ci stiamo separando?!”.
A quante di voi è già capitato di chiedersi questo?
La preoccupazione di questa mamma era di ferire cio’ al suo bambino, di dargli un dolore grosso inelaborabile, di distruggergli il mondo incantato dell’infanzia nel quale viveva.
Questo bambino aveva circa 7 anni e la sua mamma ed il suo papà discutevano della separazione da circa un anno.
Il papà diceva che non erano presenti liti in casa, discussioni dai toni accesi, musi lunghi o qualche altro atteggiamento che potesse far pensare ad una mamma e ad un papà che non vanno più d’accordo.
Questo papà avrebbe voluto tardare il momento di comunicare al bambino la decisione di separarsi.
La mamma aveva invece il dubbio che il bambino avesse capito o, quantomeno, intuito qualcosa a riguardo.
Allora, come fare in questi casi? Quando va comunicata la scelta? Come va comunicata? I bambini capiscono lo stesso?
Partiamo dai bambini.
Io credo che, a modo loro, ai bambini arrivino dei messaggi, anche non espliciti, legati al fatto che in casa, tra mamma e papà, c’è qualcosa che non va.
Nonostante l’assenza di chiare liti o il clima di apperente serenità che i genitori cercano di mantenere, l’atmosfera emotiva e relazionale anche inconscia presente tra i due genitori non può eludere la diversità.
Ovvero, la relazione nella coppia cambia. Affettivamente non sono piu’ presenti i sentimenti tipici della relazione coniugale ma ne subentrano altri che dipingono una relazione a volte amicale, a volte tra estranei, a volte tra due guerrieri che faticano a condividere il minimo indispensabile.
Tutto ciò, nonostante le varie strategie adottate per proteggere i propri figli, ai bambini arriva dritto al cuore.
A volte, loro non chiedono, altre si’.
Quando non chiedono, non vuol dire che non abbiano capito, che non abbiano interesse a comprendere cosa sta succedendo.
Anzi. Spesso non chiedono perché vorrebbero sapere, ma hanno paura delle risposte, perché non vogliono aprire il vaso di Pandora finora rimasto ben chiuso, perché non vogliono sentirsi poi responsabili di un cambiamento distruttivo dell’ideale di famiglia che ogni bambino ha.
Tutto ciò li spaventa molto.
E spaventa anche i genitori che sono spesso, ma non sempre, consapevoli che la separazione tra loro fa cadere l’illusione di una mamma e di un papà che staranno insieme per sempre, cosa che tutti i bambini vorrebbero.
Ho scritto “non sempre consapevoli” perché, invece, a volte capita di pensare che i bambini sono in grado di superare tutto, che una separazione coniugale non è poi così un trauma, che mamma e papà ci saranno in ugual modo e quindi non cambia nulla.
Penso che per un bambino la separazione sia sempre un cambiamento della routine familiare che mina la stabilità e quindi il senso di sicurezza e fiducia di sé e negli altri.
Detto questo, è importante comunicare al proprio bambino cosa sta succedendo.
Anche il non sapere lascia spazio alle fantasie e un bambino, non capendo cosa sta succedendo, può pensare che succeda davvero di tutto, può avere delle fantasie distruttive, delle fantasie di perdita, di solitudine, di angoscia.
Il sapere, invece, rassicura, dà il senso di un maggior controllo.
Credo che la scelta di comunicare al bambino la decisione di separarsi debba essere fatta quando ormai è chiaro per entrambi i genitori di proseguire in questo senso. Sembra scontato ma, a volte, non è proprio così, ovvero c’è un chiaro periodo di crisi, la minaccia di separarsi, ma poi tutto rientra.
Una volta presente questa consapevolezza, in base alla comprensione emotiva e cognitiva del proprio bambino, sarebbe meglio comunicare la scelta in modo semplice e, soprattutto, veritiero.
L’età del bambino è una variabile presente rispetto alle scelta delle parole da utilizzare.
Il contenuto della comunicazione varia in base alla storia della famiglia.
In ogni caso, è importante fornire un perché, una motivazione che, in qualche modo, giustifica la scelta e toglie il bambino dal senso di colpa e responsabilità.
È importante comunicare anche i sentimenti, ovvero come si sentono la mamma ed il papà, come può sentirsi lui.
È importante anche dire cosa succederà, come potrà sentirsi, quali saranno i cambiamenti, dando spazio alle preoccupazioni del bambino, ai dubbi, alle paure, alla rabbia e rassicurandolo sulla presenza costante dei suoi genitori per lui.
La separazione è della coppia coniugale, non della coppia genitoriale. E questo messaggio deve arrivare al bambino!

IL GIOCO DELLA LOTTA CON I PAPA’: QUALI SONO LE REGOLE?

Il gioco della lotta è un momento che piace molto ai bambini, in particolare ai maschietti.
Piace farlo con altri bambini, con i fratelli e anche con i grandi.
Ma come mai è così importante questo gioco? Che significati può avere?
Riflettevo su questo insieme ad una mamma, che mi parlava del suo bambino di 5 anni, al quale piace molto intrattenersi con il suo papà per diverso tempo in questa attività.
Il piacere di giocare è reciproco, ma questa mamma mi diceva che il suo bambino, dopo un certo tempo, diventava incontenibile, agitato, a volte aggressivo e faceva fatica a darsi un limite.
La lotta, come gioco, sembrava quasi diventare una vera battaglia.
Se prima la mamma vedeva un bambino e un papà che giocavano insieme, utilizzando il corpo, in maniera rispettosa e trasformando la lotta quasi in una danza di abbracci e risate, in un secondo tempo si è chiesta quanto e come non stessero superando un limite accettabile.
Perchè nell’attività questo bambino aveva iniziato a sfidare verbalmente, con toni accesi, e fisicamente, mostrandosi minaccioso, saltava in testa al suo papà quasi senza consapevolezza del benessere dell’altro, i tocchi con le mani erano diventati intensi e forti, tentava di utilizzare calci o gomitate.
D’altra parte, l’avversario, il padre, si mostrava passivo, inerme, non reagiva contenendo e ricordando l’importanza del rispetto e le regole del gioco, ma si adattava ai comportamenti del suo piccolo, accondiscendendo ad esso.
I bambini, soprattutto intorno a quest’età, vivono il loro papà sia come una figura da imitare, sia come una sorta di rivale. Questo è un processo di crescita tipico.
I bambini hanno bisogno di credere in parte alla fantasia di poter vincere contro il papà per essere i migliori o i più forti e, dopo, hanno bisogno di ricordare che il papà è una figura adulta e, in termini di onnipotenza, colui che non si lascia sfidare, vincere, abbattere simbolicamente dal proprio bambino.
Questi due passaggi gli permettono di crescere forti, con una buona autostima, con un’immagine paterna vicente da poter imitare e, nello stesso tempo, la presenza di un papà che controlla la loro fantasiosa onnipotenza e non gli permette di oltrepassare il limite, trasmette loro il senso del contenimento, delle regole, della regolazione.
Questa mamma aveva proprio capito che il gioco si era trasformato in qualcosa di controproducente e aveva potuto dare ad esso un significato relazionale ed affettivo costruttivo.

PAURE O INCUBI NOTTURNI NEI BAMBINI.

 

“Si sveglia di notte, è inconsolabile, non riesco a tranquillizzarlo, piange fortissimo!”, mi disse una volta una mamma.
È mai capitato qualcosa del genere al vostro bambino?
Se questo succede ai bambini a partire dai 3 anni circa, allora siamo di fronte a episodi di “pavor nocturnus” o terrore notturno.
Vi spiego brevemente di cosa si tratta.
È un parziale risveglio dal sonno profondo, accompagnato da grida, agitazione, ansia molto forte, sintomi quali sudorazione o tachicardia. Quando il bambino vive questi momenti, diventa inconsolabile e, se svegliato, appare confuso e disorientato.
Solitamente, ciò avviene poco dopo l’addormentamento e dura indicativamente qualche minuto.
Il bambino, il giorno dopo, non ricorda l’accaduto.
Questo fenomeno, secondo i vari studi, accade principalmente ai bambini tra i 3 e i 10 anni circa ed è diverso dai classici “incubi”, poiché generalmente questi ultimi vengono ricordati dal bambino, avvengono in una fase del sonno diversa ovvero quella “rem” e nell’ultima parte del sonno.
La mamma di cui sopra non sapeva proprio come gestire questa situazione con il proprio bambino. Lui, si svegliava quasi tutte le notti, da qualche settimana, e di corsa andava nel lettone dei genitori, piangendo terrorizzato. La mamma cercava di consolarlo, di abbracciarlo, di cercare di capire che cosa stesse succedendo, se avesse fatto un brutto sogno. Ma il bambino non diceva nulla. Piangeva e basta, agitato, tutto sudato, inconsolabile. La mamma diceva che le sembrava come se il suo bambino non ascoltasse. Dopo un po’ di coccole, tutto passava e il bambino proseguiva il suo sonno, a volte nel lettone tra mamma e papà.
Proprio così.
Quando avvengono questi pavor, i bambini sembrano “sconnessi” dalla realtà, non sono coscienti di ciò che sta succedendo in quel momento ed è anche per questo motivo che il giorno dopo non ricordano l’accaduto.
Le emozioni che il bambino vive in quel momento sono intense: una paura fortissima, l’impotenza, una profonda solitudine, l’angoscia più totale, l’essere schiacciati o imprigionati dai pensieri e dalle fantasie piu’ orribili.
Credo allora che, come ha fatto questa mamma, non ci siano troppe “soluzioni” al problema, se non l’esserci come figura rassicurante, che fa sentire la sua presenza, anche solo con un abbraccio, e trasmette la sensazione di protezione.
È consigliabile non svegliare completamente il bambino durante questi epidosi, al fine di evitare l’aumento ulteriore di ansia ed agitazione.
Dal punto di vista del genitore, è legittima la preoccupazione nel vedere il proprio bambino in preda al panico, perché così sembra, e la sensazione di impotenza.
Questa mamma diceva che in quelle situazioni non sapeva proprio cosa fare.
Il comprendere la tipicità di questo fenomeno ha aiutato questa mamma a credere nelle sue capacità di accudimento e a garantire quelle piccole grandi attenzioni che già stava attuando con il suo bambino.

LA SINTONIZZAZIONE TRA UNA MAMMA E IL SUO BAMBINO.

Si parla di “sintonizzazione emotiva” riferendosi alle capacità della mamma di entrare in empatia con il proprio bambino, sintonizzandosi sui suoi bisogni per poterli soddisfare. L’osservazione o lo sguardo sono, ad esempio, degli ottimi strumenti per adempiere a questo compito.

Coi bambini piccoli è fondamentale il contatto visivo perché trasmette loro la sensazione di esistere e, a volte, accade che una mamma non riesca o non possa sostenere questa interazione. Ad esempio, se una madre soffre di depressione post partum, vive una sofferenza in cui vi è una maggiore concentrazione sui propri bisogni, con la conseguente trascuratezza dei bisogni del piccolo, che si sentirà come non visto dalla propria mamma.

In alcune ricerche si è visto come i bambini che mostrano un comportamento iperattivo, per cui sono perennemente agitati, sembrano adottare questo atteggiamento con lo scopo di catturare l’attenzione materna e il contatto, visivo e non, con lei, come per volerla “rianimare” e sentire di esistere a loro volta come conseguenza.

Allora di cosa hanno bisogno i bambini, in base a questa questione?

Che una mamma sappia adattarsi in modo “sufficientemente buono”, come direbbe Winnicott, alle esigenze del suo bambino, affinchè non debba attendere troppo a lungo una risposta alle sue richieste e abbia l’impressione di “essere lui stesso il creatore della risposta”. La risposta può riguardare l’attesa della pappa, il momento di salutarsi per andare a letto e tutti gli altri momenti di relazione mamma-bambino.

In termini più semplici, è importante che ci sia una risposta tempestiva ed adeguata della mamma, affinchè vi sia una coincidenza tra il bisogno che nasce nel bambino e la risposta che arriva dalla madre. Se si anticipano i bisogni del bambino o se si ritarda troppo nella risposta, l’effetto sarò simile in entrambi i casi: si provoca un sentimento di impotenza di fronte ad un mondo esterno che il bambino non riesce più a comprendere, poiché inizia a risultargli imprevedibile.

Le conseguenze? Il bambino può ad esempio diventare anch’esso depresso, poiché si sente solo nei suoi bisogni, oppure sviluppare capacità di controllo verso la madre il che lo rende più insicuro, dipendente e sensibile ai cambiamenti.

Dove si possono notare questi segnali? Ad esempio, nelle esperienze di separazione. Se il bambino avrà una interiorizzato una mamma sufficientemente buona, queste esperienze avverranno con naturalità: al distacco dalla mamma il bambino potrebbe ricorrere all’auto-consolazione, ad esempio succhiandosi il pollice, ritrovando in questa e altre attività il piacere di stare con la mamma.

Viceversa, quando si separa e non regge il vuoto del distacco, ha bisogno di controllare all’esterno ciò che gli sfugge all’interno, quindi diventa dipendente dall’ambiente, ad esempio tramite i capricci, che diventano un mezzo per tentare di controllare la dipendenza.

O ancora, se un bambino non ha investito affettivamente nella relazione materna, sostituisce la madre, sempre percepita come lontana dai suoi bisogni, con comportamenti quali il dondolio, battere la testa contro il muro, strapparsi i capelli. Che significato ha tutto ciò? Siccome non sente una madre che, tramite lo sguardo, gli trasmette la sensazione di esistere, trova da solo questa sensazione con comportamenti auto lesivi, ovvero farsi del male gli permette di sentire il suo corpo e sentire di esistere.

Abbiamo parlato di capacita di sintonizzazione ed una mamma può chiedersi “chissà se io ce l’ho?! Chissà come è andata con il mio bambino?!”. Nella mamma è una capacità innata che fa parte dell’istinto materno; come detto, in alcuni casi può nascondersi dietro altre difficoltà o sofferenze, ma non la si perde.

LA PIU’ GRANDE DOTE DI UNA MAMMA

download (2)Qual è uno dei compiti più importanti di una mamma con il suo neonato? La rêverie. Vi spiego di cosa si tratta in termini semplici.
Innanzitutto è una capacità innata di tutte le mamme, che si sviluppa grazie ai primi contatti con il neonato e cresce, cambiando, nel tempo.
La mamma, fin dalla gravidanza, è per il bambino il suo “contenitore”. La mamma contiene il bambino nella pancia durante la gestazione, lo con-tiene tenendolo in braccio quando nasce, contiene il suo pianto, le sue emozioni.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la mamma ha la capacità di recepire ed interpretare i messaggi del suo bambino e di comprendere l’origine delle sue paure, delle sue angosce e delle sue sensazioni fisiche.
Per comprenderci, mi riferisco ad esempio al momento in cui il bambino piange e la madre, quasi magicamente, riconosce il pianto del figlio, sa a cosa è legato e quali sono i bisogni sottostanti. Come sanno le mamme, non è necessario nessuno studio, nessun libro da consultare, ma è una dote che la mamma ha naturalmente. Allo stesso tempo, il bambino sa che può contare su di essa per esprimere i suoi vissuti o disagi, sa che c’è un “contenitore mamma” che si occupa di lui e dei suoi bisogni.
A volte, può capitare che questa competenza nella mamma sia bloccata o limitata. Mi riferisco a quelle situazioni, come ad esempio, una depressione post partum, che interferisce a creare questa sintonia nella coppia mamma-bambino e che merita un supporto esterno per essere a sua volta contenuta.
Ma torniamo al concetto di rêverie, perché finora ho parlato di “contenimento”. Lo spiego con un esempio.
Il bambino piange, la mamma interviene, lo prende in braccio, gli parla e va incontro al suo bisogno, e il bambino si calma.
Cos’è successo in questa semplice e breve sequenza?
Il bambino, tramite il pianto, ha gettato fuori da sé qualcosa di insopportabile per la sua mente. Quando i bambini piangono, e non solo i bambini, esternano un’emozione spiacevole che non possono trattenere dentro di sé.
La mamma, con la sua empatia, sensibilità e disponibilità, lo ha contenuto, cioè accolto, ovvero si è resa disponibile ad aiutare il suo bambino, ad accettare ciò che il bambino le proponeva.
È qui che interviene la capacita di rêverie della mamma.
Essa trasforma questo contenuto doloroso, il pianto, in qualcosa di più tollerabile per il bambino, ovvero, ad esempio abbracciandolo o dandogli il latte, gli mostra che il pianto può passare, che il suo bisogno può essere colmato.
Il bambino allora “apprende” che se prima c’è un bisogno che crea dolore, frustrazione, pianto, dopo questo può passare e trasformarsi in un’esperienza piacevole, rassicurante, di affetto.
Perché ho voluto dare tanta attenzione a questa competenza di rêverie?
Perché è fondamentale per il bambino piccolo vivere esperienze di questo tipo, ovvero è importante che una madre ci sia nel momento in cui il bambino esprime un bisogno e necessita di lei come contenitore di questo bisogno, come colei che fa passare la frustrazione ad esso legata.
Se questo avviene, i bambini crescono sicuri di sé, capaci di gestire e tollerare le proprie frustrazioni, più indipendenti da grandicelli.
Quindi, in sostanza, l’esserci della madre con la mente prima, favorendo una buona dipendenza, aiuta all’autonomia.
Alcune teorie sostengono il contrario. Ad esempio, il lasciarli piangere cosicché si abituano alla frustrazione momentanea e possono fare da soli più facilmente.
Io credo che così la madre non passi al bambino la capacità di elaborare le emozioni e le frustrazioni, ma trasmette il suo non esserci. Il bambino apprende questo.
“Lavorare” con le emozioni è utile farlo lungo tutta la crescita di un bambino, poiché la vita, immancabilmente, gli presenterà diverse occasioni emotive che dovrà essere in grado di affrontare.