Categoria: Psicologia Bambini

IL LINGUAGGIO DEL CORPO NEL BAMBINO

downloadMal di pancia improvvisi, mal di testa inspiegabili, apaticita’ oppure estrema agitazione, disturbi nel sonno, dermatite atopica. Che significato hanno? Come aiutare bambini e genitori a superare questi disagi “psicosomatici”?
Capiamo prima di tutto perché ci sono.
Il bambino difficilmente usa le parole per esprimere le sue emozioni e i suoi conflitti, come invece solitamente fa l’adulto.
Il bambino usa il comportamento ed il corpo.
Mente e corpo sono quindi stettamente collegati, tant’e’ che l’espressione di un vissuto va di pari passo con le tappe di sviluppo. Mi spiego. Per un bambino piccolo il vissuto si puo’ esprimere attraverso la pelle, difatti intorno ai 6 mesi circa di vita potrebbe esserci l’esplosione di una dermatite atopica, magari espressione di un conflitto nella separazione con la figura di attaccamento. Proseguendo, un bambino intorno a 1 anno circa potrebbe esprimere i suoi conflitti mostrando un comportamento estremamente iperattivo. Alla scuola materna, ciò potrebbe trasformarsi nella comparsa di un tic o esprimersi come un dolore somatico, ad esempio un mal di pancia. Alla scuola elementare frequenti sono le lamentele legate alla cefalea.
Quando un sintomo nel corpo non ha nessun correlato eziologico, cioè di causa, con un fattore medico, allora si parla di disturbo psicosomatico.
Il sintomo, in questo caso, è un compromesso tra corpo e mente , una soluzione di ripiego.
Per questo motivo, è molto importante aiutare i bambini a dare un significato al sintomo, tradurlo, usando le parole per comprendere le emozioni. È il lavoro che fa uno psicoterapeuta nel suo studio e, in modo diverso, è anche uno strumento che può utilizzare il genitore a casa per aiutare il bambino a superare i suoi conflitti.
Questo metodo è qualcosa che risale fin dai tempi di Freud, il quale riuscì a trovare il nesso tra certi dolori fisici e fantasie dei suoi pazienti, a parlarne con loro, e assistette così alla scomparsa dei sintomi iniziali.
Perché i bambini prediligono la via espressiva del corpo?
Perché lo loro psiche appare ancora immatura da un punto di vista evolutivo.
È nella relazione con la madre che essa si struttura, attraverso l’accudimento continuo, nel tempo.
È la madre che “presta” al bambino la sua mente, capace di elaborare vissuti e situazioni, e il bambino la fa sua, essendo con la madre in una relazione molto intima dove ciò è possibile.
Per alcuni autori, i disturbi psicosomatici rappresentano la mancata o difficile separazione tra la mamma ed il suo bambino.
Mi spiego. La relazione “intima” o “simbiotica”, prima definita, è un passaggio tipico, una condizione di relazione normale nei bambini piccoli, prima dell’anno, con la loro mamma. È qualcosa di necessario per la crescita del bambino come persona. Poi ci si deve avviare alla separazione e, a volte, ciò puo’ risultare complicato sia per la madre che per il bambino. Il famoso “oggetto transizionale“, ovvero una copertina, un peluche che il bambino porta sempre con se’ o altro ancora, serve proprio per facilitare questo passaggio. Se ciò avviene con difficoltà o non avviene, ecco che il conflitto che il bambino vive si presenta con un disturbo nel corpo.
Cosa può fare un genitore?
Può aiutare un bambino a mettere in parole sentimenti ed emozioni, può giocare molto con lui poiché il gioco gli permette di esternare simbolicamente i suoi vissuti e conflitti e condividerli cosi’ con la mamma o il papà, può disegnare insieme a lui, poiché nel disegno il bambino simbolizza ciò che pensa o prova. Così, tramite questi semplici strumenti, il bambino può iniziare ad esprimere ciò che c’è dentro il suo mondo interno e, insieme ad un genitore attento ed accogliente, capire i suoi conflitti e attenuarli.

BAMBINI DIPENDENTI O CAPRICCIOSI

sintonizazione

Si parla di “sintonizzazione emotiva” riferendosi alle capacità della mamma di entrare in empatia con il proprio bambino, sintonizzandosi sui suoi bisogni per poterli soddisfare.  L’osservazione o lo sguardo sono, ad esempio, degli ottimi strumenti per adempiere a questo compito.

Coi bambini piccoli è fondamentale il contatto visivo perché trasmette loro la sensazione di esistere e, a volte, accade che una mamma non riesca o non possa sostenere questa interazione. Ad esempio, se una madre soffre di depressione post partum, vive una sofferenza in cui vi è una maggiore concentrazione sui propri bisogni, con la conseguente trascuratezza dei bisogni del piccolo, che si sentirà come non visto dalla propria mamma.

In alcune ricerche si è visto come i bambini che mostrano un comportamento iperattivo, per cui sono perennemente agitati, sembrano adottare questo atteggiamento con lo scopo di catturare l’attenzione materna e il contatto, visivo e non, con lei, come per volerla “rianimare” e sentire di esistere a loro volta come conseguenza.

Allora di cosa hanno bisogno i bambini, in base a questa questione?

Che una mamma sappia adattarsi in modo “sufficientemente buono”, come direbbe Winnicott, alle esigenze del suo bambino, affinchè non debba attendere troppo a lungo una risposta alle sue richieste e abbia l’impressione di “essere lui stesso il creatore della risposta”. La risposta può riguardare l’attesa della pappa, il momento di salutarsi per andare a letto e tutti gli altri momenti di relazione mamma-bambino.

In termini più semplici, è importante che ci sia una risposta tempestiva ed adeguata della mamma, affinchè vi sia una coincidenza tra il bisogno che nasce nel bambino e la risposta che arriva dalla madre. Se si anticipano i bisogni del bambino o se si ritarda troppo nella risposta, l’effetto sarò simile in entrambi i casi: si provoca un sentimento di impotenza di fronte ad un mondo esterno che il bambino non riesce più a comprendere, poiché inizia a risultargli imprevedibile.

Le conseguenze? Il bambino può ad esempio diventare anch’esso depresso, poiché si sente solo nei suoi bisogni, oppure sviluppare capacità di controllo verso la madre il che lo rende più insicuro, dipendente e sensibile ai cambiamenti.

Dove si possono notare questi segnali? Ad esempio, nelle esperienze di separazione. Se il bambino avrà una interiorizzato una mamma sufficientemente buona, queste esperienze avverranno con naturalità: al distacco dalla mamma il bambino potrebbe ricorrere all’auto-consolazione, ad esempio succhiandosi il pollice, ritrovando in questa e altre attività il piacere di stare con la mamma.

Viceversa, quando si separa e non regge il vuoto del distacco, ha bisogno di controllare all’esterno ciò che gli sfugge all’interno, quindi diventa dipendente dall’ambiente, ad esempio tramite i capricci, che diventano un mezzo per tentare di controllare la dipendenza.

O ancora, se un bambino non ha investito affettivamente nella relazione materna, sostituisce la madre, sempre percepita come lontana dai suoi bisogni, con comportamenti quali il dondolio,  battere la testa contro il muro, strapparsi i capelli. Che significato ha tutto ciò? Siccome non sente una madre che, tramite lo sguardo, gli trasmette la sensazione di esistere, trova da solo questa sensazione con comportamenti auto lesivi, ovvero farsi del male gli permette di sentire il suo corpo e sentire di esistere.

Abbiamo parlato di capacita di sintonizzazione ed una mamma può chiedersi “chissà se io ce l’ho?! Chissà come è andata con il mio bambino?!”. Nella mamma è una capacità innata che fa parte dell’istinto materno; come detto, in alcuni casi può nascondersi dietro altre difficoltà o sofferenze, ma non la si perde…

ANCHE I BULLI HANNO BISOGNO DI AIUTO

bullo

Si parla molto del bullismo e, in particolare, di come questo fenomeno abbia un riscontro emotivo e psicologico sulle vittime.

Per limitare il fenomeno è molto importante sostenere, rinforzare e dare degli strumenti alle vittime per far fronte alle violenze che subiscono.
Ma è sufficiente?!
Bisognerebbe anche agire con chi attua questi comportamenti aggressivi, forse prima di tutto.

La letteratura parla indicativamente di due tipi di bulli.
Il bullo leader e quello ansioso.
Entrambi agiscono comportamenti aggresivi di diverso tipo, ma se il primo agisce anche verso gli adulti, senza averne il minimo timore e senza mostrare la minima preoccupazione verso chi può rappresentare un’autorità, il secondo mostra una maggiore sensibilità verso il giudizio dell’adulto, il suo pensiero e ciò che potrebbe conseguire alle sue azioni.
Il risultato a volte non cambia il destino di alcune vittime, ma questa è una sfumatura importante che permette di fare delle riflessioni su come aiutare i bulli a comprendere le loro azioni e limitarle.

Partiamo dalle ipotetiche e generali cause per cui un bambino o un ragazzo abbia bisogno di comportarsi da bullo, fermo restando che ogni caso è a sé.
I diversi studi del fenomeno confermano la presenza di carenze affettive nella storia di crescita di questi bambini e ragazzi.
Il termine “carenze” è vago e può riguardare vuoti affettivi di diverso tipo.
Se sappiamo che esistono queste lacune alla base, allora è importante aiutare il bullo a colmarle, a sentirle di meno, a comprendere, ad elaborarle.
A causa del loro atteggiamento, vengono spesso emarginati dal gruppo non solo dei pari ma anche degli adulti.
Forse vale la pena riflettere sul fatto di adottare un approccio relazionale più accogliente e comprensivo da parte di chi quotidianamente si rapporta a loro, per aiutarli in tal senso.

Un’altra causa di cui si parla è il permissivismo.
Se è vero che nel contesto più famigliare si riscontra una carenza di regole che forniscono un freno e un contenimento, è utile per il contesto extra famigliare adottare delle regole che contengano.
A volte, è proprio il loro comportamento senza freni, impulsivo, al limite, che dice del forte bisogno di contenimento, come una sorta di richiesta di aiuto in tal senso: “fermatevi voi, aiutatemi a fermarmi”.
Se alla base del rapporto con l ‘altro vi è uno spazio di comunicazione, allora le regole possono essere condivise e concordate da entrambe le parti, come si fa coi bambini per educarli.
Ovvio che è un lavoro che richiede tempo e dedizione, ma può essere costruito dalle varie figure educative e non, che stanno in relazione col bullo.
Vi sarà una continua sfida e lotta per il potere da parte sua, poiché la spinta innata a prevaricare lo porterà a comportarsi in tal modo.
Sta all’adulto dall’altra parte il tollerare la continua sfida e porsi come una figura autorevole e non autoritaria, poiché è solo con l ‘autorevolezza che si può stabilire un contesto di rispetto di questo tipo.

La mancanza di empatia è un altro possibile spunto di lavoro.
Ai bulli sembra mancare questa competenza emotiva, che si sviluppa già nella prima infanzia.
Aiutarli a comprendere come si sente l’altro, attraverso il dialogo, la riflessione, l’immaginazione, la lettura di storie e la comprensione guidata, i giochi sociali che sviluppano le capacità prosociali, sono esempi sui quali si può aiutare il bullo a far spazio dentro di sé al punto di vista emotivo dell’altro.
In questo lavoro, delicato ed impegnativo, è necessaria la continuità, la perseveranza, la dedizione di figure educative, amici, conoscenti adulti, motivati in tal senso.
Ad esempio, pensando ad un gruppo di mamme che si trovano al parchetto e si trovano costantemente alle prese con un bambino che attua comportamenti da bullo verso i propri figli, è possibile pensare ad un loro intervento in tal senso, per aiutare il bambino in questione e proteggere contemporaneamente i propri figli.

Altri piccoli suggerimenti.
In qualsiasi ruolo voi siate, amici, conoscenti, famigliari, educatori o altro, non fateli sentire emarginati o stigmatizzati.
Non è semplice e a volte verrebbe da fare proprio il contrario, ma è proprio questo atteggiamento dell’altro che riflette poi un’immagine negativa di sé, presa dal bullo come unico modo per essere riconosciuto.
Si comprende come ciò alimenti un circolo vizioso.

Aiutateli a sviluppare un senso morale e sociale, attraverso il confronto, il dialogo, la riflessione, lo scambio di punti di vista: fornite il vostro a loro che potranno imparare ad averne uno diverso dal proprio o da quello che hanno sempre vissuto e condiviso.

La comunicazione con l’altro permette lo sviluppo di un senso integrato e coerente del Sé, pertanto se spesso manca il dialogo nel loro contesto quotidiano, aiutateli ad inserirlo come elemento fondamentale di una relazione costruttiva.

Come dicevamo poco fa, a loro manca l’empatia e la capacità di comunicare i propri sentimenti. Se vi è una lacuna in questo senso, di conseguenza la gestione dei conflitti diventa difficile.
Allora, li si può guidare nel trovare altri canali di sfogo delle emozioni, in primis della rabbia, a dare dignità e valore a questa emozione che comunque e’ un segnale importante del Sé e a riconoscere l’emozione dell’altro. Come? Il dialogo prima di tutto e, ad esempio, nel mettere delle parole laddove vi siano solo atteggiamenti ed agiti che per loro rimangono senza significato.

IL LUTTO NEI BAMBINI: COME ACCOMPAGNARLI IN QUESTA ESPERIENZA

Una perdita è doluttolorosa per tutti, sia per i bambini che per gli adulti.
Quando avviene un lutto in famiglia, l’atteggiamento spontaneo e naturale che può avere il genitore verso il proprio bambino è quello di proteggerlo dal dolore della perdita.
La perdita è però purtroppo avvenuta e l’unica cosa che possono fare una mamma o un papà è accompagnare il bambino nel processo di elaborazione del dolore associato alla perdita stessa.
E questo è un passaggio fondamentale che e’ importante fare e non rimandare o delegare.

Il vissuto del lutto cambia in base all’età dei bambini.
Fino ai 5 anni circa, un bambino non è ancora in grado di differenziare appieno tra una perdita temporanea e definitiva, ovvero può essere presente la fantasia di poter rivedere la persona o il proprio animaletto, che loro tornino.
Più tardi, dopo i 7 anni circa, è invece in grado di comprendere il concetto di irreversibilita’ del lutto, ovvero il fatto che se vi è la perdita di una persona o di un animale, questi non li si vedranno più.

Proprio perché la concezione del lutto non è così chiara, è importante che un genitore trovi il coraggio e la forza di parlare al proprio bambino della morte: che cos’è, perché avviene, come si fa ad affrontarla, quali emozioni provoca e così via.
Spesso si ha il timore di affrontare questi argomenti coi propri piccoli, perché si avverte il bisogno di proteggerli da un tema di grossa entità e dalla forte intensità emotiva.
In realtà, un bambino ha bisogno di capire e la chiarezza, fornita da un genitore, è importante perché dà la sensazione del controllo e della conoscenza.
Tutti, a qualsiasi età, ci sentiamo più sicuri di fronte ad una cosa conosciuta, che ci permette quindi il controllo delle emozioni.
Un genitore può fare degli esempi, partendo da situazioni accadute davvero, magari più lontane affettivamente al bambino per attenuarne l’emotivita’ e dare più spazio al pensiero, ad esempio può essere un vicino, un animale, l’esperienza di qualcun’altro.

Di fronte ad un lutto, un bambino può sentirsi arrabbiato, perché lasciato dalla persona o dall’animale a cui si voleva bene, può sentirsi profondamente solo e triste, può sentirsi in colpa e responsabile della morte, può avere il timore che possa accadere ad altre persone vicine, potrà desiderare di raggiungere la persona persa, potrà regredire a livello del comportamento o manifestare malesseri fisici o tante altre reazioni ancora.
In ogni caso, è fondamentale lasciare lo spazio per elaborare tutto questo turbinio emotivo: lasciare lo spazio per piangere la persona, ricordarla, per sfogare la rabbia, per capire.
Cosa può aiutare in questi casi?
Oltre al tempo, che permette la naturale elaborazione del lutto, può essere importante salutare la persona o animale persi.
Ciò può essere fatto attraverso dei riti di saluti personali o seguendo il classico rito del funerale.
È di aiuto al bambino, prepararlo al climo emotivo che incontrerà in entrambe le situazioni : il rito di saluto è un momento in cui si concede alla persona amata di andare via, la si saluta e ci si distacca ulteriormente e ciò può alimentare ulteriori emozioni.
Un bambino preparato in questo avrà la percezione di un maggior controllo e si sentirà più sicuro.

BULLISMO: COME FARE PER RINFORZARE LE VITTIME.

bullo” Tirati giù le mutande altrimenti non sono più tua amica!”

               “Se non fai quello che ti dico ti picchio”

               “Tu non puoi giocare con noi perché sei ciccione”

 

Questi, e tanti altri ancora, sono esempi di frasi che rappresentano il bullismo tra pari.

Una mamma, tempo fa, mi chiese: “come si insegna ai bambini ll rispetto per gli altri? Come fa un bambino da solo ad avere le competenze per scegliere la cosa giusta da fare in assenza dei genitori? Cosa si può dire ai bambini per rinforzarli?”.

Questo è un tema difficile che preoccupa da sempre i genitori, ancor di più nell’era moderna in cui, oltre agli atti di bullismo, è presente anche il cyberbullismo, ovvero il bullismo in Internet.

Il rispetto per gli altri non lo si insegna, ma lo si apprende nel corso del tempo attraverso l’imitazione dell’altro, in primis dell’adulto accudente.

Se i bambini, fin dalla nascita, ricevono un’educazione basata sul rispetto e sull’amore, allora saranno degli adulti in grado di essere loro stessi rispettosi e rispettati.

Ciò può sembrare una banalità,  ma forse vale la pena di riflettere sul significato del “rispetto”.

Se un adulto prende in giro, magari scherzando (“ma dai, smettila, stavo scherzando quando ti ho detto che non capisci nulla!”), e non si accorge della ferita emotiva che infligge al proprio bambino, allora non vi è rispetto.

Se un adulto, con l’intento di stimolare, di far puntare in alto, di promuovere ed incitare utilizza nomignoli divertenti (“muoviti, corri, mozzarella!!!”), allora non vi è rispetto.

Se un adulto utilizza lo schiaffo, come metodo educativo,  allora di nuovo non vi è rispetto.

Come cresce un bambino in questo contesto?! Non sarà un bambino forte, sicuro di sé ma, al contrario, la sua autostima sarà danneggiata, sentirà di valere poco o di non valere affatto, tanto da meritarsi i diversi trattamenti e sarà più facilmente oggetto di bullismo da parte dell’altro, poiché incapace di difendersi, poiché è minata la fiducia di sé.

D’altra parte, questo stesso bambino più grandicello, potrà agire a suo modo le violenze subite, poiché avrà appreso come stile relazionale tipico quello non rispettoso o violento.

Ecco cosa c’è alla base di questo fenomeno. Tutto parte da qui.

I bambini vanno quindi rafforzati nella propria autostima.

Questo può essere fatto quotidianamente, attraverso dei complimenti, l ‘attenzione al bambino e ai suoi bisogni, la dedizione a lui e alla sua crescita emotiva.

Si vive in un’epoca in cui manca il tempo di fare tutto: ma non è la quantità del tempo che ci dedica ad un bambino che fa la differenza, quanto piuttosto la qualità, ovvero nei piccoli gesti quotidiani, nei momenti condivisi anche brevi, è lì che, se è presente un reale ascolto del bambino, gli si trasmette il valore che ha e lo si farà sentire rinforzato nell’anima.

 Detto questo, un bambino anche da solo, in assenza del genitore che lo protegge, può mettere in atto delle competenze che lo proteggono qualora dovesse vivere una situazione di bullismo.

Se sente di valere, prima di tutto, non lascerà che l’altro lo maltratti. Questo, a qualsiasi età.

In secondo luogo, la cosa giusta da fare é prestare attenzione a come l’altro mi fa sentire: uno stesso modo di dire o agire può ferire un bambino e può lasciare indifferente l’altro. Nel primo caso, bisogna insegnare ai bambini ad ascoltare le proprie emozioni e reagire di conseguenza.

Se un bambino è sufficientemente forte e sicuro di sé, metterà a tacere il bullo di turno che non lo rispetta.

Se un bambino si sente più fragile ed indifeso, allora dovrà trovare il coraggio di parlarne con qualcuno e di chiedere aiuto subito.

Spesso questa è l’unica strada da percorrere, anche per quei bambini forti.

Il chiedere aiuto puo’ sembrare una strategia di poca importanza ma, in realta’, ne ha moltissima e non è una cosa cosi’ scontata.

Bisogna insegnare ai bambini a chiedere aiuto, perché spesso non riescono, non sono in grado, hanno vergogna, hanno paura di farlo perché temono di non essere ascoltati o creduti. Percui, diventa una competenza da allenare, per proteggersi in queste situazioni così difficili!

 

 

I NUOVI PAPA’

papa3Secondo Margaret Mahler, psicoanalista, i bambini piccoli, nei primissimi mesi di vita, affrontano una fase detta ‘simbiotica’ durante la quale credono di essere un tutt’uno con il corpo della madre e dipendendo totalmente da essa.

Questo rapporto assolutamente funzionale al corretto sviluppo fisico e psicologico del bambino va oltre alla semplice funzione di assolvere alle necessità biologiche legate alla sopravvivenza: ciò di cui il bambino ha più bisogno per un corretto sviluppo psicologico è il soddisfacimento ‘fisico’ del bisogno di affetto, tenerezza, amore ottenuto attraverso il contatto e l’interazione con la madre.

La mamma è indiscutibilmente la “fonte” del sostentamento fisico e psicologico del bambino e nessuna scienza potrà mai spiegare la magica empatia che lega una madre al suo piccolo.

In questo rapporto simbiotico tra madre e figlio, che ruolo ha il padre? Sapete che già dalla terza settimana di vita i bambini hanno reazioni diverse a seconda che si trovino in presenza della madre o del padre?

Questo avviene perché entrambi i genitori si relazionano al bambino in modo diverso: la madre per curare e calmare, il padre per giocare e stimolare; alla madre spetta, attraverso la soddisfazione del bisogno di nutrizione, trasmettere il messaggio dell’essere amati, di essere appunto “nutriti di amore”, di essere desiderati, voluti, accettati per quello che si è; ma è la presenza del padre a dare l’imprinting ai futuri rapporti sociali del bambino con il resto del mondo.

Sul rapporto col padre si basa buona parte dell’autostima che il bambino avrà verso se stesso.

Questa funzione si amplifica se si parla di bambine. Infatti, il padre è il primo uomo con cui una bambina interagisce, e sarà proprio questa figura ad influenzare i rapporti futuri con qualsiasi altra figura maschile con cui si relazionerà.

Nella storia dell’umanità, la cura della prole è sempre stata compito delle donne, mentre l’uomo era considerato fondamepapa1ntale per il sostentamento economico della famiglia. Ora, sembra che un lento ma costante mutamento all’interno dei costumi sociali abbia risvegliato nel maschio un insospettabile istinto paterno latente.

Ricerche attuali confermano come la maggior parte dei papà di oggi si occupano del loro bambino, facendogli il bagnetto, portandolo a letto la sera e accudendolo come di solito fa una mamma.

È scientificamente provato: l’uomo contemporaneo, dopo secoli di esclusione dall’educazione e crescita della prole, è giunto alla consapevolezza che partecipare attivamente alla crescita e all’educazione dei propri figli non rappresenta solo un bene per il bambino ma soprattutto si rivela fonte di soddisfazioni per il padre stesso.

Non pensate che ciò possa avere un affetto benefico anche all’interno della relazione della coppia mamma-papà?

Io credo che, se i compiti ‘famigliari’ vengono divisi equamente, vi sia anche una maggiore serenità all’interno della famiglia stessa.

E questi nuovi padri, possono essere intesi come figure sostitutive della mamma?

Io credo sia importante non confondere i ruoli!

Non bisogna dimenticare che il padre è simbolicamente la figura che funge da guida, è il tutore delle norme, delle regole sociali da rispettare, dei diritti e dei doveri, è il responsabile del necessario distacco tra il bambino e la madre, fondamentale affinché il bambino possa fare il suo ingresso nel mondo esterno. E rinunciare allo storico ruolo autoritario della figura paterna non vuol dire perdere la componente di autorevolezza che aiuta il bambino a crescere emotivamente equipaggiato per affrontare con sicurezza e serenità il mondo esterno.

Io credo che il suo ruolo vada letto come “completamento” della madre.

Un padre a 360 gradi, ovvero padre, marito e uomo, che ha un suo ruolo ben definito accanto alla madre, con la quale crea un rapporto di cooperazione volto a coprire i ruoli di ognuno secondo la propria sfera d’azione all’interno di un unico contesto quale è la famiglia, rendendosi l’uno insostituibile all’altro.

E cosa succede allora quando un papà è “assente”?

Possiamo già affermare che esiste una differenza significativa tra i figli maschi e femmine rispetto alla ripercussione emotiva dell’assenza del padre.
I ragazzi sono generalmente colpiti più duramente.
Tendono generalmente ad avere difficoltà a concentrarsi a scuola,
disturbi con deficit di attenzione e iperattività e disagi a livello della condotta, mancando l’assetto autorevole del papà.


La mancanza del padre aumenta significativamente la probabilità che un ragazzo agisca la rabbia ed è molto comune per le madri avere difficoltà a gestire in particolare i ragazzi adolescenti senza padre.
Le ripercussioni più gravi si hanno anche a livello dell’
identità maschile: mancando un riferimento adulto maschile, spesso la costruzione dell’identità, che è già di per sè un processo complicato, risulta altrettanto difficile e spesso il risultato è una confusione identitaria.

In aggiunta, si crea un fortissimo legame con la figura materna che, a volte, può diventare quasi fusionale: il padre ha proprio il compito di inserirsi in questo legame e facilitare il passaggio da una relazione a due a una relazione a tre e, se manca, ciò risulta difficile.
Fra le ragazze, gli effetti dell’assenza del padre sono spesso traslati nel tempo durante la pubertà.
Agiscono spesso in quel periodo un
comportamento sessuale esageratamente seduttivo e promiscuo e le difficoltà nel formare rapporti sani e durevoli con gli uomini sono molto comuni, proprio perchè è mancato, o è stato scarso, il primo modello di relazione con un maschio, cioè con il padre.

Sono certo riflessioni generiche e non è detto che per forza debba andare così.

Altrettanto certa è l’importanza della figura paterna per i bambini e il poter coltivare con loro questa relazione!

IL PERIODO DI CRISI A SCUOLA: PERCHE’ SI MANIFESTA E COME GESTIRLA

bimbi tristiA volte i bambini si trovano ad affrontare delle sfide sul piano affettivo e relazionale, che mettono a dura prova il loro equilibrio emotivo.
Sto pensando ai diversi passaggi di vita che, se da una parte si presentano al bambino come un grande ostacolo, dall’altra rappresentano una grossa occasione di crescita.
L’inserimento alla scuola dell’infanzia o alla scuola primaria ne sono due esempi.

La “crisi” coinvolge non solo il bambino, ma anche le figure di accudimento intorno a lui.
Ed ecco che allora succede che i bambini iniziano a manifestare il loro disagio, attraverso il pianto, il rifiuto di andare a scuola, le lamentele sul piano fisico a volte usate come ottimo motivo per stare a casa, il croggiolarsi in un atteggiamento cupo e triste o, viceversa, l’espasperare comportamenti nervosi, agitati.
D’altra parte, a volte succede che il dispiacere contagi anche i genitori, i quali raccontano di un vissuto di tristezza e malinconia nel vedere il loro cucciolo andare a scuola, realizzando consapevolmente il suo percorso di crescita.

Ma cosa succede a livello più inconsapevole? E perché si attiva tutto questo?
Nel bambino e nei genitori sembra attivarsi l’ansia del sentirsi separati, come se questo distacco, creato dall’inserimento a scuola, fosse vissuto come un grosso vuoto tra loro.
E se la famosa “crisi” inizialmente rappresenta anche un modo sano per elaborare e digerire il distacco, se perdura nel tempo e non viene superata può rappresentare lo svilupparsi di un disagio.
Ma che cos’è l’ansia da separazione?
John Bowlby, nel 1951, individua un periodo particolarmente critico per il bambino in caso di privazione materna, ovvero tra i 6 mesi e i 3/4 anni, dove la reazione al distacco si manifesta con una fase di protesta, poi di disperazione e infine di distacco. Nel’ 59, Bowlby chiama questa risposta “angoscia di separazione” che, come dicevo, può essere funzionale per l’adattamento se di lieve intensità e durata; viceversa, può rappresentare un disagio se intensa e persistente.
In questo caso, in occasione delle separazioni in generale, come ad esempio quella rappresentata dall’inizio della scuola, il bambino manifesterà la sua sofferenza, come prima descritto.

Come si può evitare di cadere in questa seconda alternativa?
Nei primi anni di vita, le cure e l’amore genitoriale forniscono al bambino la “base sicura” che permette lo svilupparsi di un “attaccamento sicuro” tra di loro. Questa sicurezza emotiva, che passa dalla figura di accudimento primario al bambino, fa sì che lui possa più facilmente stare da solo con se stesso ed esplorare con più serenità l’ambiente circostante.
Ecco perché nelle scuole vediamo bambini che più facilmente tollerano il distacco dai genitori, mentre altri che fanno maggiormente fatica.
Ed ecco perché è fondamentale che i genitori riescano a trasmettere questa sicurezza emotiva nei primi anni, attraverso una presenza calda, attenta, rassicurante e che risponda ai bisogni del bambino in modo esaustivo.
La relazione primaria col genitore fa da specchio a tutte le altre e allora, se il bambino cresce con uno stile di attaccamento sicuro riuscirà più facilmente anche a far entrare altre relazioni nel suo mondo affettivo. Penso a quei bambini che facilmente riescono a passare dalla mamma, come base sicura, alla maestra e trovare qui, in questa figura, il sostegno emotivo necessario per affrontare la crescita sia sul piano relazione che didattico.

E come si fa con le eventuali ansie della mamma e del papà?
Vale lo stesso discorso. Se i genitori hanno potuto sperimentare un legame sicuro con le loro figure di accudimento allora il distacco dai propri figli avvera’ più facilmente.
Se invece risentono della capacità di separarsi dalle loro figure di accudimento, questo puo’ complicare il distacco che dovranno prima o poi operare con i propri figli.
Penso che, nel caso in cui questo passaggio sia davvero tanto complicato, sia utile una terza figura che aiuti nel districare questo nodo legato al timore dei distacchi.